AREA

NEWS

 

 Notizie FotoNotizie
 VideoNotizie AudioNotizie

  

 
 

La soppressione delle decime sacramentali a Casoli
(1772-1789)

La soppressione delle decime sacramentali a Casoli

di Giancarlo Talone

 


   A partire dal basso Medioevo il potere laicale avviò contro le decime ecclesiastiche una lotta di cui si trovano abbondanti tracce documentali negli statuti comunali e nei carteggi delle adunanze dei cittadini. Erano tasse che la gente pagava con i prodotti agricoli e le più caratteristiche furono quelle sacramentali, corrisposte al clero locale per i servizi spirituali. Esse venivano versate alla parrocchia dove i fedeli possedevano dei fondi rustici e ogni anno un incaricato del parroco le andava a esigere.
   Sin dal principio della riforma religiosa del Cinquecento, i protestanti si schierarono contro le decime ecclesiastiche e il Concilio di Trento (1545-1563) affermò il principio della loro obbligatorietà, con comminazione della scomunica per coloro che non pagavano. Nella seconda metà del Settecento, in alcuni Stati europei furono varate diverse disposizioni abrogative delle decime, in seguito la loro sorte precipitò ovunque specialmente con l’avvento della Rivoluzione francese. Anche il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone, con i decreti 25 Luglio e 19 Settembre 1772, estese a tutte le parrocchie del suo regno le norme di soppressione delle decime dovute ai parroci (fuorché quelle corrisposte per diritto feudale) sostituendole con una congrua. A tali risoluzioni non fu estraneo Bernardo Tanucci, ministro del sovrano, vissuto nel secolo per eccellenza riformatore, egli stesso promosse innovazioni politico-sociali per rimuovere gli abusi delle classi altolocate, fra non pochi ostacoli dei conservatori. In politica il marchese Tanucci assunse un particolare vigore anticuriale che colpì il clero troppo numeroso e privilegiato. In realtà la soppressione delle decime sacramentali non intaccò i benefici feudali degli alti prelati, ma danneggiò i parroci e i curati, figli di quella borghesia agraria che nelle province napoletane già era un ceto di notabili emergenti.

   Gli abitanti di Casoli, sentendosi ingiustamente gravati dalle decime, sostenevano che la loro chiesa parrocchiale di Santa Maria Maggiore non poteva essere collegiata, capitolata o cattedrale perché fondata senza privilegi pur essendo di iuspatronato feudale. Bensì per antica istituzione compariva solo ricettiva, laddove soltanto il parroco somministrava i sacramenti; gli altri sacerdoti usufruivano di una chiesa libera e comune, quindi non coadiuvando l’arciprete, non rendendo nessun servizio spirituale alla popolazione, non potevano pretendere l’esazione delle decime sacramentali, dovevano contentarsi dei proventi delle cerimonie pubbliche, delle funzioni private e dei lasciti alle cappelle laicali. Al contrario i presbiteri di Casoli credevano di costituire un legittimo corpo ecclesiastico, perciò volevano essere mantenuti nella loro antica facoltà di esigere le decime.[1]

   L’avvocato casolano Ferdinando De Nobili intraprese, per conto della comunità, l’azione legale di non pagarsi le decime a quel clero perchè considerate illecite. In effetti il catasto onciario di Casoli del 1750, redatto dopo le "rivele" dell’anno 1748, già stabiliva ai fogli 334 nonché 382 che la chiesa matrice era "Arcipretale, Parrocchiale e Ricettizia di tutti li Sacerdoti cittadini sotto l’invocazione di Santa Maria Maggiore". Tale la definirono pure alcuni atti notarili antecedenti alla disputa delle decime sacramentali,[2] però il popolo casolano per credulità le pagava annualmente in Agosto dopo la mietitura.

   Alla fine del mese di Settembre dell’anno 1772 si svolse a Casoli una pubblica adunanza, convocata dagli amministratori locali per negare le decime. Più di 100 cittadini approvarono una contribuzione di 5 carlini a famiglia (il centro abitato contava in quel tempo circa 470 fuochi) suggerita dal patrocinatore Ferdinando De Nobili per avviare la causa civile. L’esattore delle imposte Silvestro Porreca e il messo comunale, accompagnati dagli sbirri, eseguirono poi il prelievo fiscale; ad alcuni residenti maldisposti a pagare si fecero i pignoramenti: al calzolaio mastro Domenico Di Mito sequestrarono due paia di scarpe da donna, a Croce Verlengia una giumenta e a Giona Tilli una caldaia di rame. Diversi spettatori stupefatti divulgarono nel paese l’accaduto, insomma la Regia Camera della Sommaria di Napoli, competente in materia finanziaria e fiscale, dichiarò illecita siffatta contribuzione, vietandone il proseguimento. Lo scandalo fu grande allorché l’amministrazione comunale continuò l’esazione, giungendo a confiscare una zappa ad Antonio D’Alonzo riluttante a versare i soldi della tassazione. Il mese di Febbraio dell’anno 1773, un controllore dei conti di Lanciano cercava di appurare per quali ragioni a Casoli gli ordini della Regia Camera della Sommaria erano stati ignorati e come mai il maltolto non era stato restituito ai contribuenti. In quella occasione il legale De Nobili fece convocare in casa propria, dai suoi subalterni e dagli amministratori civici, un gran numero di Casolani con il pretesto di voler restituire i quattrini da loro sborsati, anche con la costrizione, per sostenere la lite contro il clero. Gli abitanti del paese trovarono il patrocinatore seduto presso un tavolino sul quale stavano accumulate molte monete, l’avvocato era in compagnia del notaio Eliseo Porreca suo cugino, anche lui coinvolto nella questione delle decime sacramentali e con il quale aveva incassato tutto il denaro dell’esazione; inoltre era presente il giudice ai contratti Nicola Verruno seguito da diversi testimoni. Il difensore De Nobili chiese ai cittadini intervenuti se avevano la volontà di proseguire la causa contro i sacerdoti oppure rivolevano i soldi della contribuzione. Coloro che li richiesero furono da lui minacciati e scacciati, allora gli altri per timore, perché erano debitori delle cappelle laicali sulle quali l’avvocato esercitava una grande influenza, dichiararono di non voler la restituzione del loro tributo, ma che la lite contro le pretese del clero doveva proseguire, erano perfino disposti a concorrere con altro denaro. Tra il popolo intervenuto e costretto a manifestare tale volontà c’erano tanti adulti non emancipati, ossia non capifamiglie, perciò non potevano operare delle scelte, però la loro partecipazione fu essenziale per rendere noto un gran numero di opinioni in un paese che contava quasi 3000 abitanti, popolazione numerosa se riferita all'epoca. Il dottor fisico Assalonne Masciantonio riuscì a quietare con destrezza i sospetti di arbitrarietà fiscale e così terminò l’inchiesta avviata a Casoli dalla Regia Camera della Sommaria di Napoli.[3]

   Il dibattito giudiziario incominciò a Chieti in tribunale nell’Ottobre del 1772 e proseguì, senza nessuna interruzione, fino al 23 Agosto 1773 quando finalmente la magistratura accordò l’esazione al clero. Alla fine del mese lo speziale Nicola Rossetti fu allontanato da una pubblica discussione perché ritenuto un sostenitore clericale con il tornaconto; venne poi accusato di tentato omicidio del giurisperito De Nobili, che prudentemente si apprestava a lasciare il paese, allorché il 3 Settembre 1773 i giudici ordinarono l’esecuzione della sentenza benigna ai preti e il funzionario di giustizia Innocenzo Giordano approdava a Casoli con la forza dei soldati armati di moschetti, giacché la popolazione opponeva resistenza, a esigere le decime sacramentali dell’anno 1772 come pure quelle del 1773.[4]

   Dopo il giudizio favorevole ai ministri del culto, in paese correva la voce che per affrontare il litigio delle decime, con diversa fortuna dibattuto tra il clero e il popolo casolani, di cui in tribunale l’avvocato Ferdinando De Nobili era stato il difensore, costui raccolto il denaro della comunità, si fosse recato a Napoli dove invece di occuparsi della causa che tanto premeva ai suoi concittadini sopraffatti dalle pretese dei sacerdoti, ambizioso qual era avesse sollecitato e ottenuto dal principe d’Aquino la carica di intendente nei suoi feudi di Caramanico, Palena, Montenerodomo, Lettopalena, Lama, Taranta, Altino e Casoli.[5] In realtà ai magistrati del regno si poneva spesso la questione se un dato diritto di decima avesse natura sacramentale, pertanto da ritenere soppresso, o se fosse una prebenda feudale, quindi da considerarsi conservato. Vari processi volti a stabilire una presunzione di sacramentalità, dunque di soppressione dei balzelli, fallirono nei tribunali; tuttavia la giurisprudenza giunse in seguito con lo statuire che in giudizio chi chiedeva il versamento delle decime, doveva dimostrare trattarsi di un tributo del genere feudale.

 

   Nel 1716 i preti casolani avevano dichiarato Santa Maria Maggiore parrocchiale ricettiva a numero chiuso, con il vantaggio di poter soltanto loro e il parroco don Giuseppe De Nobili percepire gli emolumenti ecclesiastici; in quel tempo nessun sacerdote novello si oppose a una tale restrizione, così i presbiteri aggregati perseverarono a spartirsi le rendite annuali della chiesa. Per maggiormente definire la matrice "numerata e chiusa", nel 1764 i reverendi associati alla "ricettizia" stimarono di fare alcune capitolazioni private: istituirono il numero fisso di soltanto nove preti, incluso il parroco don Nicola Laudadio, che dovevano percepire i rendimenti di Santa Maria Maggiore, in questo modo preclusero ai futuri ministranti di poter essere accolti o aggiunti all'altare. Nel Dicembre del 1780 i giovani sacerdoti don Saverio Fini, don Agapito De Quinque, don Ponziano Tilli, don Fabiano Verlengia e don Rocco Travaglini ricorsero alla maestà del Re perché asserivano che la chiesa madre era "ricettizia e innumerata", sacro asilo di tutti i religiosi cittadini. I novelli reverendi non tolleravano l'ingiustizia loro arrecata con gli accordi privati anzidetti, perciò reclamarono da Ferdinando IV di Borbone il ristabilimento dell'autentico ambiente d'aggregazione di Santa Maria Maggiore, dunque l'ammissione dei soggetti appena ordinati alla spartizione delle sue rendite. Il monarca richiese alla Curia arcivescovile di Chieti un'opinione con dettagliato rendiconto sullo stato, sulla natura della chiesa parrocchiale. Il ricorso alla maestà del Re prevedeva tempi lunghi e appariva dispendioso, pertanto l'8 Giugno del 1782 i sacerdoti decisero con scrittura del notaio Francesco Antonio Masciarelli di unire le loro risorse per non soccombere durante la controversia. I cinque giovani coesi e risoluti fissarono i seguenti patti:

1) in caso di morte di un prete aggregato, subentrando uno di loro, doveva costui

condividere i suoi emolumenti per sostenere il ricorso fino a quando tutti avrebbero partecipato alla ricettiva, intanto i presbiteri esclusi dovevano nelle funzioni sacre fare le veci del collega ammesso;

2) qualora il sovrano e l'arcivescovo teatino monsignore Luigi del Giudice avessero

associato solo due o tre di loro, costoro dovevano lo stesso spartire le provvigioni con gli esclusi sino a quando anche questi avrebbero occupato posti vacanti e partecipato alla distribuzione delle rendite parrocchiali;

3) semmai il Re non avesse voluto ammettere tutti i ricorrenti, fissava a nove i preti aggregati, allora chiunque occupava in avvenire un posto vacante nella ricettiva, doveva dividere con gli altri la sua porzione annuale di beni, però gli esclusi dovevano coadiuvarlo nei sacri uffici dentro e fuori la terra;

4) se qualche novello sacerdote, per sua colpa fosse stato assente dal paese, per motivi personali non si sarebbe curato di occupare un posto vacante nella chiesa, senza merito nessun collega era tenuto a dargli la sua parte.[6]

 

   Nell’Agosto del 1787 Ferdinando IV di Borbone emanò nel regno di Napoli le normative rettificate e gli amministratori di Casoli, dopo molte lagnanze dei cittadini, accolsero all’inizio del Febbraio 1788 la proposta di Paolo De Nobili (parente del giurisperito Ferdinando) di trattare un accordo con il parroco don Pietro De Petra, valutata la numerosità dei domiciliati che chiedeva l’applicazione dei nuovi regolamenti soppressivi delle decime. I dottori Fabiano De Nobili e Francesco Ricci furono scelti per discutere convenientemente con l’arciprete la questione; dopodovevano riferire in pubblico consiglio, presente il governatore territoriale Nicola Antonio Aloisi, l’esito delle trattative, così la comunità poteva adottare altre soluzioni se bonariamente non si concludeva nulla.[7]

   Dopo diversi giorni i due delegati informarono i concittadini che il loro arciprete era ben lieto di prendersi la congrua, comunque integrata con la percezione dei frutti delle terre sommata ai proventi della stola bianca e nera (quelli della somministrazione dei sacramenti), perchè il solo assegno annuo era insufficiente al sostentamento del suo beneficio ecclesiastico. Allora il dottor fisico Giocondo Travaglini propose all’assemblea di esporre alla maestà del re la riluttanza del parroco ad accettare i decreti legislativi e di invocare, pertanto, i relativi ordini per la loro piena attuazione.[8]

   All’inizio del mese di Giugno dell’anno 1788, gli amministratori di Casoli, non potendo più resistere alle ragionevoli proteste della cittadinanza per l’inosservanza della legalità, convocarono un’assemblea generale con l’intento di discutere se corrispondere il complesso dei redditi del beneficio ecclesiastico, necessario al conveniente sostentamento dei sacerdoti prepostivi, oppure continuare a pagare le decime sacramentali. Il giudice Cassiodoro De Cinque e il chirurgo Assalonne Masciantonio furono delegati a esaminare le normative sulle imposizioni ecclesiali, riferire in consiglio e semmai ricorrere a Napoli per ottenere con celerità il benestare regio per offrire la congrua all’arciprete De Petra e un sussidio a ciascun presbitero aggiunto all’occorrenza, in modo da togliere perpetuamente ai sudditi di Casoli il peso delle decime. Fu concesso al clero di aggregare un altro ministro alla liturgia che avrebbe soddisfatto, con gli altri, le necessarie pratiche spirituali dei fedeli; in questo modo "utile e vantaggioso" l’intera popolazione del paese compiva comunque le sue devozioni senza pagare i tributi sacramentali.[9]

 

   Alla fine del Giugno 1788, di nuovo si svolgeva a Casoli un pubblico consiglio per disporre gli stanziamenti dei compensi dovuti ai preti. Era prossimo il mese di Agosto allorquando abitualmente si davano le decime, perciò il medico Giocondo Travaglini riteneva urgente stabilire le somme da destinare al parroco don Pietro De Petra e agli altri reverendi suoi aiutanti. Il camerlengo Giacomo Antonio De Nobili (fratello dell’avvocato Ferdinando) nonché il cassiere Falco De Nobili (altro suo parente) dovevano prelevare dall’erario municipale le sovvenzioni a vantaggio dei religiosi secolari. Lo speziale Nicola Rossetti, Alessandro Travaglini, il notaio Nicola Belfatto e Paolo De Nobili dovevano negoziare con i ministri dell’altare un conveniente accordo, senza litigi dispendiosi, e anche una onesta pacificazione del popolo casolano con il potere spirituale.[10]

 

   Nel Luglio del 1788 il cassiere comunale non poteva elargire le somme stanziate senza l’autorizzazione regia. Era indispensabile risolvere la questione poiché i riluttanti presbiteri, adducendo lo stesso motivo, cercavano di eludere la legalità per reclamare ancora le decime nell’imminente mese di Agosto. Lo stesso arciprete rifiutava la sua congrua e aveva notificato ai dirigenti civici una lettera del presunto cappellano maggiore, vice parroco, con la quale ostinatamente si definiva collegiata la chiesa madre e non ricettiva per tutti i sacerdoti residenti. Il chirurgo Giocondo Travaglini proponeva, invece, di sollecitare a Napoli il consenso regio per le parti convenienti, nonché sufficienti, a don Pietro De Petra e ai ministri aggregati all’altare. Frattanto il droghiere Rossetti, Paolo De Nobili e Simone Travaglini proseguivano le trattative con il clero, sostenuti dalla fiducia dei fedeli. Lo speziale Rossetti proponeva per sicurezza di affiancare altri due cittadini benestanti ai custodi dei denari depositati, finché non giungevano al paese i regi dispacci che autorizzavano i pagamenti previsti.[11]

 

   Nell’Agosto del 1788, dopo parecchie ambascerie al reverendo De Petra, costui insisteva ancora nel definire la chiesa matrice del paese "numerata e chiusa per un dato numero di preti". Il parroco la voleva a tutti i costi collegiata nonostante essa fosse priva degli atti di fondazione, dei privilegi e del regio beneplacito, indispensabili per poter la prerogativa essere considerata legittima. Dunque l’arciprete pretendeva l’immediata riscossione delle decime sacramentali, ignorando le svariate assemblee popolari che avevano sempre giudicato Santa Maria Maggiore una semplice parrocchiale aperta a tutti i presbiteri casolani. La collettività doveva sostenere qualunque spesa per serbare quella originaria condizione di chiesa ricettiva o "innumerata", essenziale per potersi sottrarre al peso delle decime. I faziosi clericali cercarono d’impedire alla comunità di adoperarsi in difesa delle proprie ragioni, implicitamente volevano la prosecuzione delle eccessive esazioni che ogni anno ammontavano a circa "600 tomola di grano". Intanto gli intermediari Alessandro Travaglini e Nicola De Cinque cercavano un’intesa con la controparte; in caso di esito nuovamente negativo, i delegati Paolo De Nobili, il droghiere Rossetti e Simone Travaglini dovevano prelevare qualsiasi somma dall’erario comunale, compiere gli atti opportuni per non dare soddisfazione ai sacerdoti e conseguire quel vantaggioso obiettivo che "implicava anche la posterità della terra di Casoli".[12]

   Secondo il clero le decime sacramentali erano i compensi necessariamente offerti ai ministri del culto, in quanto omaggi resi ad onore di Dio dagli uomini sulle cose a loro concesse dal Creatore. Esse erano dunque dovute dai fedeli per legge naturale e divina, ma anche per diritto positivo ecclesiastico giacché stava alla Chiesa definire a chi dovevano essere corrisposte, su che cosa e in quale misura; però il popolo di Casoli della seconda metà del Settecento era praticante in religione ma laico in politica.

 

   Il 25 Agosto del 1788, i designati per trattare la questione con l’arciprete, riferirono in pubblica assemblea che il clero secolare quell’anno pretendeva da ogni agricoltore "un mezzetto raso" di grano e da ciascun possidente "un tomolo pieno" di frumento, per l’anno successivo chiedeva, con le dovute garanzie, una compensazione pecuniaria pari al valore complessivo delle granaglie solitamente riscosse e il beneficio di ampliare la compagine religiosa. Il medico Giocondo Travaglini era favorevole al progetto, quindi propose ai delegati Paolo De Nobili ed Alessandro Travaglini di inviare a Napoli le missive, da comporre con il parroco, per chiedere la convalida regia, così si stipulava in breve tempo "l’istrumento d’intesa". Lo speziale Rossetti obiettò che, trattandosi d’interesse pubblico, quel giorno lavorativo non si doveva discutere l’argomento giacché mancava alla riunione la maggioranza dei cittadini; riteneva opportuno osservare soltanto gli ordinamenti giuridici, perciò toccava prelevare dal pubblico peculio il denaro necessario per avviare un processo contro il clero paesano. Paolo De Nobili replicò che il consiglio convocato si poteva regolarmente svolgere perché quel "giorno di San Bartolomeo" era "festivo a tenor del solito".[13]

   I residenti intervenuti all’assemblea sostennero l'infida richiesta del droghiere Nicola Rossetti. Il malumore popolare faceva presagire una ribellione, infatti il 12 Settembre del 1788, dopo le insistenze di moltissimi cittadini esasperati, gli amministratori locali li radunarono nella piazza del paese, piena di gente che compatta chiedeva, con "gran voce", di essere in qualunque modo liberata da tanto sopruso.[14] L’adunanza degenerò in una rivolta; le minacce e le azioni contro i preti furono tali che 162 Casolani finirono in galera.

   Dopo un mese, preceduta dai soliti bandi del messo municipale Archideo Di Benedetto, fu convocata un’ennesima riunione con la presenza del luogotenente Diodato Fini, per chiudere definitivamente la questione delle decime, per difendere in tribunale i reclusi coinvolti nei moti di Settembre e per restituire la tranquillità agli abitanti di Casoli. L’avvocato Ferdinando De Nobili consigliò in quella occasione di "doversi quietare le liti", assegnando in avvenire all’arciprete la ragionevole congrua di 60 ducati e la giusta rimunerazione di 25 ducati a ciascuno degli otto sacerdoti da aggregare alla chiesa ricettiva; tali compensi dovevano essere erogati ogni anno con il pubblico denaro giacché il peso delle decime era collettivo. I tributi sacramentali maturati in passato dovevano essere corrisposti preferibilmente in un’unica soluzione di 300 ducati e con quietanza di soddisfazione dei sacerdoti. Qualora la cassa municipale fosse rimasta senza tali contanti, tutte le famiglie dovevano essere tassate onde assicurare al clero la somma annuale di 260 ducati, "in luogo delle decime soppresse che prima ascendevano complessivamente a oltre il doppio". Per la reciproca accortezza, la transazione delle parti doveva essere "istrumentata" con l’indispensabile riconoscimento regio. Circa la sorte dei rivoltosi carcerati, il loro difensore Ferdinando De Nobili esortava i compaesani a evidenziare che la sommossa del mese prima fu una semplice sollevazione di popolo, esplosa senza premeditazione. Tutti i cittadini intervenuti all’assemblea stabilirono che i favori resi alla comunità dal patrocinatore, gli dovevano essere compensati con 50 ducati da annoverarsi tra le spese pubbliche.[15]

   Da Napoli la principessa Vittoria d’Aquino (Guevara dei duchi di Bovino, consorte del principe Francesco Maria Venanzio di Caramanico, feudatario di Casoli a quell’epoca vicerè in Sicilia) interveniva per comporre il dissidio, temendo che gli eventi avrebbero messo in discussione pure le sue prerogative feudali.

 

   Il 13 Ottobre del 1788 l’istrumento d’intesa tra il clero locale e il popolo casolano fu rogato dal notaio Francesco Antonio Masciarelli nella casa canonica (Pietro De Renzis giudice ai contratti, testimoni i fratelli Fabiano e Luigi Talone di Casoli nonché Pietro Menna da Palombaro); presenti da una parte l’arciprete don Pietro De Petra con gli otto sacerdoti partecipanti alla chiesa ricettiva: don Giuseppe Fini, don Francesco De Nobili, don Saverio Laudadio, don Filippo De Vincentiis, don Gilberto De Petra, don Ponziano Tilli, don Saverio Fini e don Agapito De Quinque, dall’altro lato il camerlengo Giacomo Antonio De Nobili accompagnato dal nuovo cassiere municipale Fulgenzio Porreca. Tutti con giuramenti intervenivano per loro stessi e agivano anche in nome dei successori nelle rispettive cariche.[16]

   I carteggi comunali settecenteschi di Casoli svelano la funzione fondamentale di quell’assemblea popolare detta "parlamento", l’organismo principale della "università" (collettività); era lo strumento adatto a smussare i contrasti, a concordare il comportamento comune, oppure l’azione delle parti. Le adunanze venivano convocate nei giorni festivi, per favorire una maggiore partecipazione della cittadinanza; manifestavano un equilibrio degli elementi contrapposti che spesso si tenevano nella dovuta considerazione. Si distinguevano per lo spirito collegiale poiché si discuteva fino a raggiungere un accordo oppure un compromesso; la loro caratteristica costante era l’estrema ristrettezza della classe dirigente, non priva di faziosi che con ogni espediente cercavano di salvaguardare i loro interessi. Il "balivo" (banditore, messo comunale) chiamava la gente in assemblea; intervenivano solo i cittadini di pieno diritto e non la popolazione reale del paese, perché le donne, i forestieri, gli adulti non emancipati dalle famiglie patriarcali, erano esclusi da qualsiasi partecipazione attiva. Dunque solo i nativi idonei ai consigli potevano, secondo gli ordinamenti comunali, rivestire le cariche amministrative elette ogni anno. Il "camerlengo" o "camerario" era l’amministratore del patrimonio collettivo. Con lui collaboravano altri specifici gestori detti "massari" oppure "officiali", garantivano l'autenticità dei verbali e degli atti delle assemblee redatti da un "attuario" o "mastrodatti" (cancelliere). Un "erario" (cassiere) custodiva il denaro della comunità. Spesso durante le riunioni venivano eletti dei "deputati", cioè delle persone designate temporaneamente dalla collettività per svolgere una mansione oppure a eseguire un mandato di una certa importanza o che richiedeva una competenza specifica. Sovente ai dibattiti assisteva il "governatore", il rappresentante feudale nonché giudice del territorio, che a volte affidava codeste cariche a un vicario locale detto "luogotenente", ambedue dovevano giurare per iscritto di rispettare gli statuti e le consuetudini comunali; il curatore degli interessi economici locali del feudatario era anche lui detto "erario" oppure "agente". Le delibere civiche erano poi sottoposte al controllo (tramite il rappresentante legale della collettività nella capitale del regno) della Regia Camera della Sommaria di Napoli, la giurisdizione suprema in materia burocratica, economica e tributaria, una magistratura collegiale alla quale dovevano sempre rendere conto le autorità del reame che maneggiavano il pubblico denaro. Ai personaggi che avevano svolto un ruolo di primo piano nella vita politica e civile della collettività, oppure ricoprivano le cariche amministrative più significanti, spettava per gratitudine l’appellativo di "magnifico".. Durante l’adunanza popolare tenuta a Casoli al principio di Dicembre del 1788, presente anche allora il legale Ferdinando De Nobili, i cittadini intervenuti decisero di fare assolvere in giudizio quei conterranei indagati a causa del tumulto, che tanto aveva intimorito il clero secolare, giacchè era scoppiato senza organizzazione, ma solo con l’intento di schivare le illecite richieste dei presbiteri. Dunque i facinorosi arrestati dovevano essere difesi tramite una solidale contribuzione, proporzionale al censo di ogni famiglia; intanto la fazione clericale cercava con le delazioni, producendo false accuse e testimoni maneggiati, di provare alla magistratura la malafede della sommossa del mese di Settembre.[17]

 

   Il 31 Maggio dell’anno 1789 le autorità di Casoli convocarono un altro consiglio generale al quale intervennero 143 capifamiglie, numero raramente raggiunto, cosicché per la gran folla esso si svolse nel castello feudale. Conclusa la questione delle decime sacramentali, tornata la concordia nel paese, era necessario esaminare le spese sostenute dalla collettività durante il dissidio. Non fu fatta la sottoscrizione pubblica per scagionare i rivoltosi, ma questi evidenziarono come i benefici derivati dalla transazione fossero di tutti, così dovevano essere comuni i costi del processo che li aveva prosciolti, perché l’intesa fra i laici e i religiosi secolari fu anche raggiunta con quella ribellione che aveva turbato i preti, inducendoli all’inevitabile compromesso. I vantaggi erano quei complessivi 260 ducati da corrispondere ogni anno ai ministri del culto, al posto dei tributi ecclesiastici in natura che prima della loro abolizione valevano globalmente circa 700 ducati annui. Intanto i gestori delle finanze pubbliche di Casoli avevano pagato al regio tribunale di Chieti un anticipo di 300 ducati per le spese processuali, ma restava ancora da definire il debito di 480 ducati, poiché le udienze del giudice Vincenzo Codagnone ammontavano a ben 728 ducati! Inoltre era doveroso ricompensare il rappresentante legale Gabriele Luise per i suoi buoni uffici nella capitale del regno. Tali somme, spese per il benessere generale, erano da prelevare dalle finanze pubbliche e se qualcuno voleva contestarle, ritenendole illecite, tutti i Casolani si impegnavano a sostenere gli amministratori responsabili, finchè non si otteneva il consenso regio per maggiore garanzia. Comunque al paese già erano giunti da Napoli i dispacci della Regia Camera di Santa Chiara, la quale approvava la transazione che poneva fine al contrasto tra i laici e i sacerdoti casolani (il regio assenso venne concesso il 22 Giugno 1789). Al termine dell’adunanza fu volontà del popolo deliberare pubblici ringraziamenti alla principessa Vittoria Guevara d’Aquino e al magistrato Vincenzo Codagnone "per la pietà e la giustizia" che entrambi dimostrarono agli abitanti di Casoli. In quella occasione la cittadinanza decretò un plauso anche all’avvocato Ferdinando De Nobili perché, difensore della sua terra, "con molto zelo" si era prodigato per sottrarre, "tra disagi e pericoli", tanti compaesani all’inquisizione della giustizia, comportandosi come un vero "Padre della Patria".[18]

   La chiesa parrocchiale di Santa Maria Maggiore aveva tante proprietà, godeva di molte rendite,[19] ridimensionate nel tempo dalle leggi eversive dei beni ecclesiastici e delle opere pie emanate prima da Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat (sovrani del regno napoletano succedutisi in età napoleonica), poi dal potere laicale fautore dell’unità italiana. Nel 1914 il parroco di Casoli don Giuseppe Colanzi scriveva in una sua relazione che le decime sacramentali, dovute in natura dai fedeli al clero secolare del paese, furono abolite "poco prima della Rivoluzione francese" e che nel 1901 moriva l’ultimo sacerdote partecipante della chiesa ormai neanche più ricettiva.[20] Nel secondo dopoguerra don Tancredi Madonna, parroco di Casoli dal 1947 al 1979, rinunciò per sé e per i suoi successori alla riscossione dei canoni enfiteutici, ossia ai fitti delle terre parrocchiali concessi "ab antiquo" in uso illimitato ai contadini con diritto di trasmetterlo ai discendenti, così i coltivatori divennero proprietari di quei poderi che un tempo appartenevano alla chiesa di Santa Maria Maggiore.

 


 

NOTE

 

[1] Rossetti D., "Casoli nel secolo XVIII": lettura fatta il 12 Febbraio 1899, ristampa a cura del circolo “Mosè Ricci” dall'originale del 1925, Casoli 1978, cfr. nota 1 pp. 28 e 29.

 

[2] Fiorentino N., "In terra casularum": regesti, volume IV cfr. documento CXXXIX e nota 1 pag. 220, volume VI cfr. documenti XXIX pp. 47-49, CLXXII pp. 267-270 e CXC pp. 296-298.

 

[3] Fiorentino N., op. cit., volume VII cfr. documenti CCXXIII pp. 324 e 325, CCXXIV pp. 326-328.

 

[4] Scurci F. S., Nota di fatti e ragioni in difesa della calunniata innocenza del magnifico Nicola Rossetti di Casoli che si propone alla giudicatura dell’integerrimo signore don Carlo Crispo avvocato fiscale della Regia Udienza Provinciale, Chieti 1774, cfr. pp. 4-12 e 13.

 

[5] Rossetti D., op. cit., cfr. pp. 28 e 29.

 

[6] Fiorentino N., op. cit., volume XIII cfr. documento CXXI da pag.86 a pag.88.

 

[7] Libro dei Parlamenti dell'Università di Casoli, verbale dell’adunanza del 4 Febbraio 1788, volume A (1778-1799), cfr. foglio 101.

 

[8] Lib. Parl. Univ. Casoli, verbale dell’adunanza del 24 Febbraio 1788, volume A, cfr. foglio 102.

 

[9] Lib. Parl. Univ. Casoli, verbale dell’adunanza dell’8 Giugno 1788, volume A, cfr. fogli 103 e 104.

 

[10] Lib. Parl. Univ. Casoli, verbale dell’adunanza del 22 Giugno 1788, volume A, cfr. fogli 104 e 105.

 

[11] Lib. Parl. Univ. Casoli, verbale dell’adunanza del 20 Luglio 1788, volume A, cfr. fogli 105, 106, 107 e 108.

 

[12] Lib. Parl. Univ. Casoli, verbale dell’adunanza del 17 Agosto 1788, volume A, cfr. fogli 108, 109 e 110.

 

[13] Lib. Parl. Univ. Casoli, verbale dell’adunanza del 25 Agosto 1788, volume A, cfr. fogli 112 e 113.

 

[14] Lib. Parl. Univ. Casoli, verbale dell’adunanza del 12 Settembre 1788, volume A, cfr. foglio 114.

 

[15] Lib. Parl. Univ. Casoli, verbale dell’adunanza del 12 Ottobre 1788, volume A, cfr. fogli 117 e 118.

Fiorentino N., op. cit., vol. XIII cfr. doc. CDXLII pp. 297, 298, 299 e 300.

 

[16] Rossetti D., op. cit., cfr. pag. 30 nota 1.

Fiorentino N., op. cit. vol. XIII cfr. doc. CDXLII pp. 295, 296 e 297.

 

[17] Lib. Parl. Univ. Casoli, verbale dell’adunanza dell’8 Dicembre 1788, volume A, cfr. fogli 119 e 120.

 

[18] Lib. Parl. Univ. Casoli, verbale dell’adunanza del 31 Maggio 1789, volume A, cfr. fogli 122, 123, 124 e 125.

 

[19] Catasto Onciario dell'Università di Casoli, volume manoscritto nel 1750, cfr. foglio 334, fogli 382, 383, 384 e 385.

AA. VV., "Il Catasto Onciario di Casoli 1750", ediz. Tinari, Casoli 2005, cfr. pp. 507 e 508, pp. 558, 559, 560, 561 e 562.

 

[20] Colanzi G., Pro memoria del 1914 riguardante la vertenza tra il parroco di Casoli (provincia di Chieti) e l’amministrazione del fondo culto per la ripartizione del superstite asse dell’ex ricettizia, Raccolta documenti (1700-1900) curata da Imbastaro P., Casoli 1992, cfr. pp. 136, 137 e 138.

Inserito da Redazione il 12/09/2006 alle ore 11:30:00 - sez. Storia - visite: 14172