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 11 novembre 1864, ricorrenza della morte di un eroe sulmonese del nostro Risorgimento, Panfilo Serafini 
 di Ezio Pelino 
 Era ancora giovane, aveva solo 47 anni. Ne aveva trentasette quando la Gran Corte Speciale di Aquila lo condannò a 20 anni di carcere. Fu rinchiuso nelle orride galere di Montefusco, poi di Montesarchio e Procida. Celle scavate nella roccia, anguste, umidissime, fredde e buie. Qualche barlume penetrava dalle feritoie. Ma alla ferocia del potere borbonico non bastava, ogni condannato doveva essere legato ad un altro carcerato con una catena lunga quattro metri, pesante più di quindici chili. Una catena che serrava le caviglie, rendendo lenti e faticosi i movimenti. Il recente film di Mario Martone “Noi credevamo”, che ricorda i suoi compagni più noti, Carlo Poerio e il Duca Sigismondo Castromediano, ne ha riprodotto tutto l’orrore. Le lettere di Panfilo Serafini dal carcere raccontano di sofferenze indicibili, di piaghe alle caviglie, della tubercolosi che lo affliggeva, dei frequenti sbocchi di sangue. Passò “la sua vita – scrisse Benedetto Croce – fra triboli e dolori”. Ma di quale tremendo delitto si era macchiato per meritare un tale inferno? Nessun delitto. Bisognava impedire che egli pensasse, che avesse opinioni e le comunicasse. Così come era già toccato a Silvio Pellico, nel Lombardo Veneto, sotto l’aquila imperiale austriaca. I corpi di reato furono un sonetto, un manifestino e un libro. Il sonetto era stato affisso il giorno di S. Panfilo del 1848, il manifestino “Protesta del popolo napoletano”, stampato dalla locale tipografia Angeletti, affisso nella notte del 14-15 maggio 1853 sulla porta di casa del sindaco, il libro era quello da lui scritto sulla “Teocrazia romana”. Serafini, 
		malato, distrutto nel fisico, ma, incredibilmente non nello spirito, 
		riuscì persino a scrivere in carcere il saggio “Sul Canzoniere di 
		Dante”, servendosi solo della memoria. Gli fu, infatti, negato il testo 
		dantesco, più volte, inutilmente, richiesto. Ma non ne vide la 
		pubblicazione, avvenuta postuma a Firenze nel 1883. Dopo cinque anni di 
		carcere, grazie ai tempi nuovi seguiti alla II guerra d’Indipendenza, 
		gli fu concessa, il 29 agosto del ’59, la grazia, e fu assegnato al 
		domicilio coatto sotto sorveglianza in una località che non fosse quella 
		di origine. Andò a Chieti. L’anno successivo Garibaldi, spazzando il 
		regime borbonico, lo liberò dal confino. Il sogno, il suo sogno 
		dell’Italia unita, libera e indipendente, si era realizzato. Vi aveva 
		speso la vita. La sua gioia era grande. Ma nessuno dei nuovi uomini al 
		potere si ricordò di lui. Era tempo di mutamenti epocali, tempo propizio 
		per i gattopardi. Sul finire del 1860 - si era appena conclusa l’epopea 
		garibaldina - il suo compagno di carcere, il Duca Sigismondo 
		Castromediano, è lui che lo scrive in ”Carceri e galere politiche”, 
		richiamato da un “soffocante lamento”, lo riconosce alla luce di un 
		lampione, al Largo Mercatello a Napoli, in un uomo che giace supino sul 
		lastricato. E’ svenuto per fame. Tornato a Sulmona, finalmente ottiene 
		qualche riconoscimento: è assessore comunale, presiede una società 
		operaia, ma, sollecitato dagli amici a presentarsi candidato alla Camera 
		dei deputati, nel collegio di Popoli, viene sconfitto. Ebbe di che 
		vivere grazie all’ospitalità generosa di un amico fraterno, il dott. 
		Giuseppe Di Rocco, che aveva preso ad aiutarlo fin dal tempo della 
		detenzione. Serafini, per avere l’autorizzazione a scrivergli, lo faceva 
		passare per un parente, lo chiamava zio. Nella casa dell’amico lo colse 
		la morte. “Il ricordo di lui, delle sue parole e azioni, di tutta la sua 
		persona, è ancora così vivo e popolare tra i suoi concittadini come se 
		egli si fosse dipartito da essi pur ieri.”, così scriveva Benedetto 
		Croce. Era il 1913. Poi, fu dimenticato.  | |