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Messico un addio, romanzo di Alberto Del Pizzo
Il libro è stato stampato dalla stessa casa editrice che quaranta anni fa pubblicò con successo 'Il Monumento'

Messico un addio di Alberto Del Pizzo

Finito di stampare a Novara nel mese di Febbraio 2009 dalla Todariana Editrice di Milano, il libro di Alberto Del Pizzo "Messico, un addio", è stato scritto negli anni successivi ai Giochi Olimpici a Città del Messico, e ai relativi massacri, nel 1968. Il romanzo ambientato in una nazione travolta dalle Olimpiadi e da una sanguinaria repressione, rappresenta anche una disanima della vita avventurosa di un manager europeo.

Alberto Del Pizzo nato a Palombaro l’8 marzo 1922 e cittadino casolano sin dalla prima infanzia, è stato Professore di Lettere Italiane e Storia negli Istituti Tecnici e Magistrali. Ha insegnato per alcuni anni in Abruzzo, a Roma, a Napoli, in Toscana ed ha collaborato alle riviste Paragone, Nord e Sud, Dimensione e alla terza pagine di un quotidiano romano.
Una raccolta di suoi racconti, intitolata "La gente del circo", fu segnalata inedita nel 1958 dalla commissione giudicatrice del premio letterario ”Corrado Alvaro” e pubblicata dall’Editore Rebellato di Padova nel 1961 riscuotendo notevoli consensi critici. Nel 1964 il suo romanzo intitolato "Il Monumento", segnalato inedito dal terzo concorso letterario “Giovanni Verga”, è stato pubblicato con successo nel 1969 (di quest'ultimo libro, sono stati pubblicati in questa pagina cinque capitoli che lo stesso scrittore ha autorizzato).
Passato alle dipendenze del Ministero degli Affari Esteri, il professor Del Pizzo è stato Addetto all’Istituto Italiano di Cultura di Città del Messico dal 1964 al 1971, e successivamente Direttore di quelli di Addis Abeba, di Marsiglia e di Grenoble.
Ormai in pensione, è tornato in Italia a vivere a Firenze.

IL RACCONTO

L’io narrante di questo racconto era un manager italiano di un’azienda multinazionale, che aveva lavorato ed era stato accasato a lungo a Città del Messico, dopo esserlo stato a Lagos in Nigeria, a Rio de Janeiro in Brasile e in altre nazioni in cui la civiltà industriale diramava le proprie attività. Egli era originario dell’Abruzzo, aveva studiato a Roma, era stato militare nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale ed aveva fatto in tempo per accodarsi ai partigiani.
Era un “intellettuale”, lettore di tutto ciò che di nuovo si pubblicava allora in Italia, seguace dei film neorealisti, e credeva che quelli come lui avrebbero potuto cambiare la società. Alla fine, per necessità economiche, dopo un conflittuale matrimonio a Roma e una figlia, aveva accettato il primo incarico in Nigeria, dove la moglie e la figlia erano andate a trovarlo ma senza adattarsi, come egli ormai non si sarebbe più adattato al traffico automobilistico di Roma e alla relativa puzza di carburante.
Il libro è ambientato su una lenta nave da carico, che costeggiava tutto il Golfo del Messico, fin nella Florida ed oltre, sostando a lungo nei porti per scaricare e caricare merci. Il nostro protagonista, per strano diversivo o capriccio aveva scelto quest’insolito e proletario viaggio per ritornare in Italia, dove avrebbe ricevuto un nuovo incarico dalla multinazionale avendo esaurito il suo compito a Città del Messico.
Il nostro, sulla nave che costeggiava la “Gringolandia”, si teneva in contatto telefonico con le amiche e con gli amici di Città del Messico, sconvolta dai Giochi Olimpici del 1968, perché Città del Messico era il suo unico punto di riferimento. Infatti in Italia non era atteso da alcuno e lui non sapeva chi avrebbe cercato, oltre i funzionari della multinazionale. Dunque, mentre familiarizzava con il personale di bordo, quasi tutti italiani, in buona parte campani e pugliesi, marinai perché nati in cittadine di mare, ma anche contadini perché le loro case avevano sul retro orti e giardini e altre culture cui badare, telefonava alle amiche Eva, Consuelo e Claudia per avere notizie delle Olimpiadi, ma soprattutto per sentirsi ancora legato a Città del Messico, e, attraverso di loro, a tutti gli amici, e anche ai giovani, in particolare all’idealista Marcos, che per il nostro protagonista era una sorta di portavoce di certa gioventù messicana.
Marcos parlava in termini di oppressione e di guerriglia, di fame, di rivolta e di repressioni feroci. Spesso in Messico gli “oppositori” venivano trovati il mattino suoi marciapiedi come carogne di gatti. Egli e i suoi amici cercavano invano nei romanzi celebri degli europei e dei “gringos” l’energia tellurica che c’era nei dipinti di Rivera e soprattutto di Siqueiros, facce sconvolte di indios, bocche di donne straziate da un urlo di disperazione e di rivolta. La sorte dei messicani dipendeva sempre da un partito rivoluzionario che eleggeva un presidente istituzionale, il quale una volta al potere doveva servirsi della polizia governativa per reprimere i movimenti neorivoluzionari: sempre così, da Villa a Zapata e allo stesso Carenza. «Vi credete al centro del mondo ed autentici perché siete nati in Europa», diceva Eva passeggiando nuda e disinibita per la casa, «ma poi questa terra vi cambia ed ha cambiato anche te»; Marcos invece si esprimeva diversamente sull’argomento: «L’Italia esiste e il Messico no. Ci guardiamo indietro e non vediamo niente. Non abbiamo storia, noi. Il Messico non è ancora uscito dalla selva. Ma le fabbriche possono coesistere con la selva, no?».
Su quella nave c’erano anche pochi anonimi passeggeri, ma, a parte don Manuel Garcia e famiglia, integrati perfettamente nella civiltà dei gringos, fino a disprezzare i corregionali indios, la passeggera più importante, vistosa e ciarliera era Agnese, una bella donna che con gli italiani parlava il veneziano, magari mischiato a parole e a neologismi americani. Durante l’ultima guerra mondiale era stata una delle tante che avevano sposato un soldato americano, magari senza essere andata alla Base di Vicenza per cercarselo, trasferendosi poi con lui in una di quelle città petrolifere come Tampa. Ma il marito, una volta dimessa la divisa, l’eccitazione e l’allegria, si era rivelato un mutacico ubriacone. Tornava da lavoro con la bottiglia in mano e sedeva davanti alla televisione.
Con il passare del tempo Agnese aveva trovato un’amica veneta, di quelle che erano andate a cercarsi il marito americano nella Base militare di Vicenza. Su suggerimento della compaesana si era messa a produrre tovaglie, tovaglioli, sciarpe e fazzoletti ricamati alla maniera veneziana, magari con l’aggiunta di qualche colorato eccesso o disegno messicano, e, vendendo quegli oggetti si era resa indipendente dal marito. Con quei guadagni Agnese faceva le sue crociere annuali, sempre parlando, criticando, spettegolando, dicendo la sua su tutto e cercando un corteggiatore occasionale. Durante questo viaggio il corteggiatore e l’amante di Agnese era stato il nostro protagonista… anche se restio ad accompagnarla nelle città portuali in cerca di locali in cui divertirsi.
Ora il nostro narratore era rimasto press’a poco l’unico passeggero a bordo… e ci voleva ancora molto tempo per arrivare in Italia. Ascoltava i discorsi del Comandante, fumatore di pipa, la cui casa in Italia aveva un balcone sul mare, gli altri marinai, Eva al telefono (Marcos era stato liberato da una prigione insieme ad altri giovani quando i Giochi Olimpici s’erano conclusi) e soprattutto ascoltava se stesso: «Cambio continente e il mio discorso rimane immutato. Non riesco a comprendere la pretesa assurda di mettere addosso ad altri popoli il nostro modello di sviluppo, senza mai capire che cosa desiderano da noi, se davvero desiderano qualcosa». Pensando al nuovo incarico si immaginava il nuovo ufficio lindo, i diagrammi che avrebbe tracciato, i quali avrebbero avuto la purezza di perfette astrazioni. «Vi domineranno i numeri, che non hanno corpo, né colori; e se da una di queste astratte operazioni discenderà la decisione di distruggere un pezzo di foresta tropicale, che sta lì dalle origini del mondo, io non vedrò alberi cadere né animali fuggire, né fuggirne uomini come animali».

Inserito da Redazione il 24/05/2009 alle ore 08:53:23 - sez. Libri - visite: 4205