La tesi è particolarmente ardita, e il grafico di Wired non è così eloquente: basti osservare alla curiosa decisione di separare il traffico generato dai video da quello delle pagine internet, quando in realtà quei video sono parte integrante di quelle pagine e del web. BoingBoing fornisce dei dati che dicono tutt’altra cosa: il traffico sul web è passato da 10 terabyte al mese nel 1995 a un milione di terabyte nel 2006. Insomma: gode di ottima salute.
Quindi il nostro suggerimento è lasciare perdere il titolo dell’articolo di Wired e la sua tesi, ma leggere comunque con attenzione le varie voci che discutono del tema sul mensile statunitense: dicono molto di come sta cambiando internet e il nostro modo di utilizzarla e abitarla.
Wired propone innanzitutto due punti di vista differenti sul tema, uno firmato dal direttore Chris Anderson e l’altro firmato da Michael Wolff, editorialista di Vanity Fair e fondatore di Newser. Non si dividono sul tema della presunta morte del web, bensì sulle sue cause e su chi ne ha le colpe. Chris Anderson sostiene, in breve, che la colpa è nostra.
Ti svegli e controlli la posta sull’iPad, con un’applicazione. Mentre fai colazione ti fai un giro su Facebook, su Twitter e sul New York Times, e sono altre tre applicazioni. Mentre vai in ufficio, ascolti un podcast dal tuo smartphone. Un’altra applicazione. Al lavoro, leggi i feed RSS e parli con i tuoi contatti su Skype. Altre applicazioni. Alla fine della giornata, quando sei di nuovo a casa, ascolti musica su Pandora, giochi con la Xbox, guardi un film in streaming su Netflix. Hai passato l’intera giornata su internet, ma non sul web. E non sei il solo. |
È una distinzione cruciale, dice Anderson, secondo cui una delle più importanti svolte nel mondo digitale è stata proprio quella dal mondo spalancato del web a piattaforme chiuse o semi chiuse che usano internet soltanto come mezzo per trasportare i dati. C’entra l’ascesa dell’iPhone, ma c’entra soprattutto il fatto che questo genere di piattaforme sono più semplici da usare e si adattano meglio alle vite e alle abitudini delle persone.
E in realtà, a pensarci bene, perché non dovrebbe essere così? Perché l’ascesa e il predominio del web dovrebbero essere eterni e impossibili da mettere in discussione? Anderson scrive che già nel 1997 Wired scrisse che la tecnologia push – che permette di far arrivare i dati direttamente a te, senza costringere ad andare te da loro – avrebbe messo fine ai browser: in realtà questo argomento potrebbe essere usato contro Wired, visto che i browser sono ancora vivi e in piena salute. Ma Anderson rivendica che è adesso che quella profezia si sta avverando: continueremo ad avere pagine internet, così come oggi continuiamo ad avere cartoline e telegrammi. Ma il centro dei media interattivi non sarà più basato sul linguaggio HTML, per farla breve.
Michael Wolff racconta un’altra storia. Racconta dei venture capitalists, i soggetti che investono il loro denaro in molti piccoli e innovativi progetti nella speranza che qualcuno di questi faccia il botto e li ripaghi di tutti i soldi spesi – e con gli interessi. Il loro stesso comportamento è un po’ il ritratto del web: molto orizzontale, poco profondo. Ultimamente però, la tendenza si è invertita. I grossi finanziatori e gruppi d’interesse puntano su meno soggetti e di maggiori dimensioni. Un modello strategico del tutto diverso: invece che puntare su venti social network, per fare un esempio, puntare solo su Facebook. Che è un sito internet, ma con i suoi 500 milioni di utenti è molto più di un sito internet. Secondo un rapporto della società di analisi Compete, i primi dieci siti più visitati negli Stati Uniti producevano il 31 per cento del traffico totale nel 2001, il 40 per cento nel 2006, il 75 per cento nel 2010. I grandi stanno prosciugando i piccoli.
Se stiamo abbandonando la logica del web aperto e orizzontale, è almeno in parte per l’ascesa degli uomini d’affari, che pensano quasi esclusivamente in termini di tutto o niente: molto più simili alle logiche verticali dei media tradizionali piuttosto che a quelle utopiche e collettivistiche del web. Si tratta del risultato di un’idea ben precisa, che rigetta l’etica del web, la sua tecnologia e i suoi modelli di business. |
Wired propone anche un lungo scambio di email tra il direttore Chris Anderson e due esperti di web 2.0. Gizmodo ha già commentato la tesi di Wired, la stessa cosa ha fatto Techcrunch: entrambi con qualche perplessità. Parliamone, insomma.
Fonte: www.ilpost.it