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Il diario del prigioniero di guerra n° 86506
Il diario che il sulmonese Ilio Di Iorio, oggi novantenne, ebbe la lucidità e la forza di scrivere nel campo di prigionia
di Ezio Pelino Ilio Di Iorio è da tutti conosciuto a Sulmona come professore, preside, uomo di grande cultura. Ma, pochi sanno quale giovinezza la patria fascista gli ha regalato. Ce lo racconta il suo diario, un diario prezioso che egli ebbe la lucidità e la forza di scrivere nel campo di prigionia. Un documento, pertanto, se non unico, raro. L’armistizio lo colse in Montenegro. Dall’oggi al domani, da soldato a prigioniero dei tedeschi. Da uomo a schiavo. N° 86506. Nel campo di Duidorf, vicino Aquisgrana. Successivamente a Oberhausen Osterfeld, in Renania. Non un campo di sterminio come quello di Primo Levi, ma “Se questo è un uomo” potrebbe essere il titolo anche del suo diario. Squallide baracche, lavoro per dodici ore al giorno, anche di notte, bestie da soma nella miniera di carbone, verdura lessa, acqua e rape o bucce di patate, con trecento grammi di pane di guerra. Pane e carbone, che impregna le loro lacere divise, i loro zoccoli di legno all’olandese, le loro misere cose. Disprezzati, derisi. Gli italiani tutti, non solo loro, i cosiddetti Badoglio, anche i fascisti e il loro capo. Li chiamano, quando li chiamano, “asino vecchio” o “merda”. Pretendono di essere serviti: “sono obbligato spesso a portar loro il carbone della stufa”. Per strada i ragazzi, i coetanei di quelli che potrebbero essere i suoi alunni, sputano loro addosso e li prendono a sassate. Il suo pensiero va spesso ai suoi genitori, ai fratelli, di cui non sa più niente. Dove sono, sono vivi, cosa sanno di lui? Lo assilla il dubbio che non riuscirà a “portare la pelle a casa” , che non rivedrà più la mamma e il padre. Soffre anche, e tanto, per i suoi amati studi classici interrotti e il suo sogno spezzato di diventare professore di lettere classiche. Scrive, sconsolato: “La mia giovinezza è sfiorita in questa prigione di spirito più che di corpo”. Molti si ammalano di stenti, di polmonite, pleurite, alcuni sono feriti, altri muoiono. Si sente fiacco, senza energie. Ogni stimolo di vitalità , ogni segno di giovinezza lo ha abbandonato. Nel campo non c’è alcuna forma di assistenza medica, solo un soldato polacco di sanità che funge da infermiere. Non basta l’inferno tedesco, c’è anche quello americano. Anche i liberatori sono loro nemici. Dal cielo martellano con i bombardamenti. Radono città, ne fanno terra bruciata. I tedeschi si rifugiano nei rifugi, mentre i prigionieri vengono scacciati. Persino le cinque baracche che “ospitano” i circa trecento prigionieri sono squassate per lo spostamento d’aria. Ilio è solo e si sente più degli altri solo. Scrive : “Tutti i miei compagni hanno chi l’amico, chi la fidanzata, chi la moglie; ne mostrano le fotografie e godono di essere amati. Io non ho nessuno”. Ma nel tentativo disperato di consolarsi aggiunge: “Forse è anche meglio”. In quel deserto di amore, in quel mondo violento e feroce lo riscalda il pensiero che solo la famiglia è un’oasi felice: "In questo mondo solo i genitori amano i loro figli. Solo nella famiglia l’uomo trova il suo conforto e la sua pace; al di fuori tutto è cattivo". “Sono stanco degli uomini, voglio vivere isolato”. La nostalgia della patria è straziante: "Ora sento di amare l’Italia, la mia gente. In queste giornate tristi penso all’azzurro cielo della mia terra , ai suoi prati verdi, alle sue catene montuose. Il mio Abruzzo mi pare ora proprio tutto d’oro”. Una tristezza infinita penetra nella carne e nelle ossa. Viene in mente il lamento di Quasimodo, ”E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore…”, a leggere che “gli italiani, dappertutto conosciuti per la loro gaiezza e per il loro canto, ora qui deportati non cantano più. I loro volti sono tutti venati di tristezza; sono giovani dai venti ai trent’anni, ma ne mostrano ben di più”. Non è facile spiegare in quale angolo del suo spirito straziato egli riesca a trovare un’infinita pietà per le donne del campo, alcune adolescenti, costrette ad essere il sollazzo della razza superiore. Sono riflessioni struggenti: “Povere ragazze, per forza di cose hanno dovuto darsi e sono state violentate e ora hanno preso l’abitudine a questa vita, perdendo ogni sentimento morale, mal vestite e mal nutrite, ricevono solo disprezzo e considerazione di razza inferiore“. “ Povere donne, sotto quei luridi stracci tante volte si vedono dei visi dall’espressione distinta, che indicano la loro nobile origine pur nell’abbrutimento presente”. Succede di tutto in quel mondo in cui “la bestialità è diventata l’unica espressione” dei padroni. Un russo ammazzato con un colpo di rivoltella sparatogli da pochi centimetri mentre stava rubando tre patate, uno pugnalato e un altro colpito con la pistola al ginocchio per una piccola infrazione. Egli teme per il suo diario, se dovesse capitare nelle mani dei carcerieri, quale sarà la propria sorte? Pensa di distruggerlo, ma lo nasconde come può. Il nazismo è alla fine , ma la propaganda non si arresta. Per un giornale, il General Anzeiger, gli americani, quelli che distribuivano cioccolata, chewing gum, whisky e sigarette, portano la fame, tanto che 600 casi di antropofagia si sarebbero verificati fra la popolazione. Chiunque avrebbe fatto patti con il diavolo per uscire da quell’inferno. Ma quando, nel dicembre del ’44, un delegato del Fascio si presenta per reclutare volontari per le S.S. della Repubblica sociale di Salò, nonostante le lusinghe, riesce a racimolare appena una decina di volontari. Gli alleati sono oramai vicini. I prigionieri devono scavare trincee per l’ultima disperata folle resistenza. Ilio fugge con alcuni compagni, si ripara in un fabbrica di vetro abbandonata. Si sono liberati dei carcerieri ma non hanno più nemmeno quella maledetta gamella di brodaglia schifosa. Sono alla fame totale. Frugando disperati trovano sacchi di mangime per cavalli. Ha il sapore della sabbia, ma è commestibile. Finalmente saranno liberati dai paracadutisti americani. Ma la casa è ancora lontana. Ci vorranno, incredibilmente, cinque mesi per raggiungerla. Era partito a 19 anni, ne aveva ora 25. Sei anni dati alla patria governata da un folle. Nel 1972 , la guerra è ormai lontana, Ilio riconosce, dalle foto dei giornali, nell’appena eletto Segretario generale dell’Onu, Kurt Waldheim, quel feroce tenente tedesco, biondo, longilineo, astuto come una volpe, che, in Montenegro, dopo l’armistizio, aveva ordinato di uccidere sul posto un soldato italiano per aver barattato una coperta e che aveva ingannato tutti loro promettendo di portarli a Trieste e liberali, mentre, ammassati su carri bestiame scoperti, senza cibo e senza acqua, li aveva destinati ai campi di concentramento in Germania. Sulla stampa veniva esaltato come “un grande combattente per la libertà e la pace nel mondo”. La sua prestigiosa carriera politica continuò con l’elezione a Presidente Federale d’Austria. Solo allora si seppe che si trattava di un criminale di guerra, che aveva eseguito rappresaglie brutali contro i partigiani iugoslavi e contro civili e deported most of the Jewish population of Salonika (Thessaloníki), Greece, to Nazi death camps in 1943, deportata la maggior parte della popolazione ebraica di Salonicco nei campi di sterminioWaldheim admitted that he had not been candid about his past but disclaimed all knowledge of or participation in wartime atrocitie. Sugli anni della Seconda Guerra Mondiale aveva taciuto, inventandosi un suo definitivo rimpatrio nel 1941 a seguito di una ferita. E’ morto recentemente. Non ha mai pagato per i suoi crimini. |
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