La mattina del Quattro Novembre
sullo spiazzo dell'Assunta c'era tutto il paese. Una messa in
chiesa, e subito dopo la cerimonia all'aperto. Ma alla messa
andò poca gente: il gruppo delle autorità e delle famiglie dei
Caduti, le bandiere del Comune e dell'Associazione Combattenti,
e gli alunni delle scuole, anch'essi con le loro bandiere, e gli
insegnanti in testa. Il grosso del pubblico confluì senza fretta
verso l'Assunta durante la celebrazione della messa; poi,
quando sulle scale della chiesa riapparvero le bandiere e dietro
di esse le autorità, i combattenti (tutti in borghese, ma con le
decorazioni e i nastrini sul bavero della giacca e,
alcuni, anche con il cappello da alpino o il fez da bersagliere)
e lo stuolo oscuro dei familiari dei Caduti, la folla fece
semicerchio intorno al monumento e alla piccola banda musicale
che aveva preso posto già da prima, su un lato. I ragazzi delle
scuole, divisi per classi, con i grembiuli neri i maschietti,
bianchi le femminucce, furono schierati invece dietro,
nell'anfiteatro verde del prato.
Una giornata non molto limpida, ma calda. L'avvocato
Pasquantonio infatti, che si era unito in chiesa al gruppo dei
maggiorenti ma restando un po' discosto dagli altri in compagnia
di don Vittorio, si tergeva la fronte come se fosse estate. Alto
e grosso, rapidamente invecchiato negli ultimi tempi, era curvo,
un flaccido ammasso di carne, naso gote testa e spalle cascanti
come se fosse fatto di molle cera che il tepore dell'estate di
San Martino bastasse a disfare. Ma la voce era ancora robusta,
molto più sonora, anzi, di quanto lui stesso non pensasse, così
che tutti sentirono le sue parole quando disse, credendo di
brontolare soltanto all'orecchio fidato di don Vittorio: —
Andiamo a sentire questo piagnisteo democratico. — Don Vittorio
sogghignò, perché un piagnisteo c'era veramente da attendersi,
tra i discorsi di don Alessandro, che notoriamente non era mai
stato un miracolo di eloquenza, e dell'altro oratore
democristiano
— il senatore De Cristoforis, un diafano vecchietto riemerso nel
dopoguerra come una pallida ombra dalle caligini del prefascismo
— e quanto avrebbe continuato a sussurrare ai suoi amici don
Pasqualino come in un accorato commento a pie' di pagina.
Quando furono davanti al monumento, ancora coperto,
don Vittorio manovrò in modo da riportarsi col suo amico un po'
più al centro, così da non essere né tanto in vista da apparire
corresponsabile di quella scialba messa in scena democratica né
tanto appartato da dar l'impressione di essere stato relegato
tra quelli che non contano. Perché nel gruppo c'erano tutti,
quelli che s'erano battuti per avere il monumento e quelli che
s'erano adoperati per sabotarlo, solidalmente schierati dietro
don Alessandro, che se ne infischiava degli uni e degli altri.
Con gli occhi socchiusi nel suo faccione da Budda era il solito
gatto sornione che non perdeva una battuta di quello che si
diceva e si faceva intorno a lui. Certamente li aveva visti, lui
e don Carlo, e per un po' don Vittorio temette che li chiamasse
per aggiogarli al suo carro, ma poi si accorse, e non senza
un'ombra di dispetto, che aveva deciso di ignorarli e che se né
lui né Carlo si fossero fatti avanti non li avrebbe tolti dal
loro isolamento.
— Trionfa, quel figlio di una troia — digrignò tra sé e sé
don Vittorio, ma forse Carlo lo sentì ugualmente, perché anche
lui se la prese col barone: — Il monumento. Lo dovevano fare a
lui, questi fregnoni — disse, ma così forte che Vittorio gli
dovette dare una gomitata nel fianco per farlo tacere.
Nel gruppo c'era il notaio Di Prinzio nella sua
qualità di primo sindaco del dopoguerra, c'era l'avvocato Sardo,
Fanti per eccellenza, l'antitutto, e quindi anche
antimilitarista, ma qui convocato come fratello del più alto in
grado tra i caduti, c'era Ciccillo Di Bene, medico arrivista e
proteiforme, ansioso di mettersi in vista, adesso, perché si era
cominciato a parlare della istituzione di un ospedale alla
Rocca, c'era il veterinario Carata, il consigliere provinciale
zotico e taciturno, c'era Guido Di Santo, sempre disponibile con
la sua aria di pronto a tutto e sempre ignorato, e c'era la
pattuglia della nuova leva democristiana, Roberto Colasante,
Dino Di Bene e gli altri, giovani lesti e impazienti come
cavalli al nastro di partenza.
Tra loro si era ficcato anche Virgilio, poveretto,
ma era chiaro che era uno sconfitto, anzi un escluso, e che se
mai avesse voluto combinare qualcosa, ma sempre in secondo o
terzo piano, in ogni caso, si sarebbe dovuto mettere all'ombra
del barone. Lui, don Carlo, lasciava fare.
Certo, se le destre avessero avuto altre possibilità sarebbe
stato un discorso diverso. Ma con quest'Italia che s'era data in
braccio ai preti e ai comunisti? Si cercasse pure, Virgilio, la
sua strada.
I comunisti in quella cerimonia del monumento non ci
si erano messi, anzi i loro più giovani esponenti se ne stavano
in disparte a osservare lo spettacolo in atteggiamento di
ostentato dissenso; ma erano riusciti a fare scrivere il nome di
Carluccio Bizzarri, il partigiano fucilato in Alta Italia, tra i
morti di Vittorio Veneto e dell'Abissinia. Così che non ci
sarebbe stato affatto da stupirsi se invece di mettersi da parte
a ghignare avessero presa la decisione di scendere in massa con
la loro bandiera rossa a recitare la farsa di rendere onore ai
Caduti.
L'unico modesto successo degli umiliati combattenti
di don Pasqualino era stata la designazione del Cappellano
Militare che aveva celebrato la messa: don Alessio Ruscitti, il
parroco di Torre Avellana, il sacerdote combattente d'Africa e
d'Albania, decorato con una sonante medaglia al valore militare.
Un prete valoroso, vivaddio! E un gran parlatore, un oratore da
comizio, altro che quaresimali, certamente il più adatto tra i
presenti a pronunziare il discorso inaugurale. E invece non
te l'avevano neutralizzato quei porci di democristiani?
Eccolo lì, povero don Alessio, celebrata la sua messa per i
morti nella chiesa dell'Assunta (nemmeno la Messa al Campo
avevano voluto, quegli sciagurati), confuso nel drappello delle
autorità e costretto anche lui, con le sue rilucenti decorazioni
sull'abito talare, a deliziarsi dell'oratoria di due capponi.
In testa allo sparuto manipolo dell'Associazione
Combattenti, al limite dunque tra quelli che contano e quelli
che non contano nulla, c'erano Donato La Morgia, nella sua
qualità di fratello di un caduto, e Nicolino Masci, combattente
a pieno diritto, i fedeli scudieri di don Pasqualino, il quale
infatti stava appena un passo davanti a loro, accanto al
Senatore, al Prefetto e al Sindaco. Maestro e pupillo allo
stesso tempo, si diceva ironicamente don Vittorio, perché quei
due, e Donato specialmente, ostentavano sempre una affettuosa
protezione nei riguardi di Pasqualino, il quale dal canto suo
non era detto che non mostrasse di averne bisogno, con quella
sua aria di vecchio fanciullo.
Tra le più alte autorità c'era anche Raffaele
Valente, giunto espressamente da Chieti al seguito del Prefetto
insieme con altri funzionari della Prefettura.
Don Carlo non lo aveva notato prima: — C'è tornato
apposta dall'Alta Italia, quel satanasso? — domandò con quel
vocione a don Vittorio.
— No, che Alta Italia! Sono due o tre mesi che s'è fatto
trasferire a Chieti. Non lo sapevi? Ma non è più il satanasso
che dici tu. Il diavolo s'è segate le corna.
Infatti Raffaele non s'era fatto più sentire per il
Piano le poche volte che era tornato alla Rocca. Aveva fatto
carriera e assunta una veste di ufficialità a cui non si
confacevano più certe filippiche. Pancia piena non cerca
pensieri, e lui s'era bene ingrassato, aveva addolcito con molto
adipe le linee una volta scattanti della sua figura. Lo sguardo
no, era sempre imperioso e fiammeggiante, con la differenza che
non esprimeva più alcuna protesta ma solo una ferma volontà
proveniente dall'alto. Perciò ancor più di prima si guardava
attorno come se non ci fosse che lui a far andare le cose per il
verso giusto. Infatti anche adesso era lì per ricordare che se
il monumento stava per essere inaugurato era perché lui l'aveva
voluto. Quanto al fatto che ci fosse anche il nome di Carlo
Bizzarri tra gli altri caduti, non aveva più alcun interesse.
Ascoltò a braccia conserte le brevi parole con le
quali don Alessandro aprì la cerimonia e applaudì quando
applaudirono tutti, anzi precedette gli altri, con ferma
convinzione, come se don Alessandro avesse detto precisamente le
cose che egli aveva in animo e che da parte sua esprimeva con lo
sguardo e con l'atteggiamento risoluto. Il gruppo degli studenti
dissidenti, con Luigino Bambagia, Federico Sardo e Gaetano, il
figlio del maestro Villani, non faceva che guardare verso di lui
con sorrisi e ammiccamenti, ma lui non mostrò di accorgersene.
Il suo applauso scrosciò con gli altri anche quando il barone
accennò, con eloquenza un po' frusta, all'epopea popolare da cui
era uscita la nuova Italia democratica, all'indomito coraggio
col quale tanti modesti figli d'Italia, privi di capi e di
direttive, avevano saputo opporsi, « forti soltanto del loro
amore per la libertà » — disse —, « al bieco straniero che
faceva strazio disumano delle nostre belle contrade dopo averle
occupate da infido alleato ».
— Povero Alessandro, ecco fatto il suo compito di scuola —
brontolò don Carlo all'orecchio del suo amico, e questa volta
veramente le sue parole non furono udite da troppa gente, perché
vennero sommerse dagli applausi.
Il barone del resto più che un compitino di scuola
non aveva voluto fare. Non era un oratore e non ci teneva. Né
era capace di dare accenti impetuosi alla sua voce. Quelle cose
risapute le aveva dette con un tono poco diverso da quello che
avrebbe usato per fare un brindisi a tavola, che era l'unico
genere di oratoria col quale avesse preso dimestichezza, forse
perché era il solo che gli consentisse di esercitare la sua
signorile arguzia. Adesso, cessati gli applausi, s'era rivolto
al Senatore e al Prefetto per chiedere il loro assenso, e aveva
fatto un cenno a chi doveva scoprire il monumento.
La banda riattaccò l'inno di Mameli e il drappo
bianco cadde, scoprendo la linda architettura di travertino.
Tutti s'irrigidirono nella posizione di attenti. Don Pasqualino
era davanti a tutti, gonfio d'orgoglio e di commozione,
trasportato dalla solennità del momento verso i ricordi delle
sue due guerre e di quanti, ufficiali e umili soldati, nell'una
e nell'altra avevano diviso con lui fatiche e pericoli. I più
cari li aveva dinanzi agli occhi, ma non senza che la loro
figura reale si mescolasse, sull'onda di quella musica e nella
contemplazione di quel « monumentino » (come da qualche tempo un
po' per modestia e un po' per un affettuoso sentimento di
paternità spirituale egli chiamava la sua opera), all'immagine
astratta del combattente che è pronto a immolarsi per la patria,
così che la fisionomia degli amici perduti e di quelli lontani
che, conosciuti nelle trincee, dal tempo di guerra non aveva più
rivisti, non riusciva a emergere dai suoi commossi ricordi. No,
adesso vedeva bene che il discorso non avrebbe potuto
pronunciarlo in nessun modo, se mai avesse accettato l'incarico
di prepararlo, tanto si sentiva la gola serrata dalla
commozione. Del resto, meglio, — egli pensava — molto meglio di
ogni fluire di parole il silenzio di quei momenti solenni.
Commosso quanto lui era soltanto Lunardo, che allineato con i
suonatori della prima fila, gonfiava le gote sul suo clarino
contemplandosi con le prolungate occhiate che a facilità della
musica gli consentiva, le linee del monumento al quale era
orgoglioso di aver collaborato. Ma la sua commozione non
derivava da questo. I nomi dei caduti, sì, le grandi tavole
grigie su cui aveva inciso i bei caratteri latini e i sobri
fregi che l'architetto gli aveva disegnati; ma i suoi pensieri
andavano di nuovo ad alcuni di quei giovani di cui aveva inciso
il nome sulla pietra e di cui dietro il gruppo delle autorità
vedeva anche i parenti, povera gente che sembrava averci tanto
poco a che fare con le autorità e con la cerimonia che si stava
svolgendo.
C'era Concetta, la moglie di Carmine Diodati; c'era
Nicola Bizzarri, il padre di Carluccio; c'era Paolino Rotunno,
con i capelli bianchi e il viso scavato da tanti guai, a cui il
figlio avrebbe forse rimesso in piedi il negozio e invece non
s'era mai fatto vivo dalla Russia nemmeno con una cartolina e
doveva essere morto prima ancora di vedere in quali posti lo
avevano mandato a combattere; c'erano i genitori di Armandino Di
Gioia, che lui, Lunardo, aveva visto crescere e andare a scuola
con la cartella a tracolla e giocare a palla nello spiazzo
accanto alla sua bottega: un pelorosso piccolo e nervoso con un
vortice di capelli sulla fronte, che s'entusiasmava per nulla e
per nulla litigava con i compagni durante la partita e sbottava
a piangere di rabbia per un goal o un calcio di rigore. Era
partito forse nel Quarantadue, o nel Quarantuno, perché l'ultima
cosa che ricordasse di lui Lunardo era che andava scrivendo con
la calce e col catrame per i muri del Piano gli evviva per Rocco
Di Tullio, il ciclista della Rocca che prese parte all'ultimo
giro d'Italia, che fu quello del Quaranta.
Viva il torello d'Abruzzo, aveva scritto
proprio su un muro della strada nuova di fronte alla sua
bottega, perché il giro doveva passare appunto li quell'anno, e
la scritta di catrame rimase poi per tutta la durata della
guerra, per tutto il tempo dei Tedeschi e degli Inglesi e del
dopoguerra.
Nemmeno di Armandino si era mai saputo dove e come
fosse morto. L'avevano dato disperso in Russia come Nicolino
Rotunno e come don Gigino Sullo, che s'era perduto anche lui in
quelle pianure gelate e in famiglia non avevano mai rinunciato
alla speranza di riabbracciarlo e forse adesso ancora
s'illudevano e perciò nessuno di loro s'era voluto mettere tra i
parenti dei caduti, nonostante che il suo nome fosse inciso tra
gli altri. E anche se in paese si conoscevano si e no di vista e
non avevano mai giocato una partita a carte insieme perché don
Gigino era figlio di signori e stava tutto l'anno a studiare
fuori, chi sa che feste si sarebbero fatte là, se mai si fossero
incontrati, due compaesani, a così grande distanza da casa.
Finito l'inno di Mameli il senatore De Cristoforis,
un vecchietto bianco e curvo che Lunardo non aveva mai visto
prima, cominciò a sua volta a parlare, ma a bassa voce, senza
gesti, col cappello in mano e lo sguardo rivolto alle lapidi.
Così che a Lunardo che s'era messo ad ascoltarlo senza capire
molto, con la mente ancora piena del ricordò di Armandino e di
come lo aveva visto crescere e poi improvvisamente sparire prima
ancora che fosse uomo fatto, sembrò che la cerimonia si
celebrasse soltanto per lui in quella bella mattinata di
novembre, e che tutti, autorità, amici, gente del paese, banda
musicale, si fossero raccolti col vecchio padre e con la madre
intorno alla sua sepoltura, e che perciò quest'altro vecchio,
che chi sa perché era venuto da fuori a ricordarlo, parlava cosi
dimesso e non sollevava un momento lo sguardo da quell'ara che
era veramente una tomba, tutta di bianco travertino e con un
lampada votiva che le ardeva davanti.
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