Dal Blog di
Severino Mingroni
Alle 3,32 del 6 aprile 2009, la mia stanza da letto
dondolò abbastanza ma, per fortuna (?), non cadde nessun mobile. Tuttavia,
io, supino come sempre per riposare (?) la notte, pensavo fosse giunta la
mia ora. Poi tutto tornò calmo: mia madre si alzò dal suo letto e accese la
luce; la mia vecchia gatta Fufi sembrava impazzita, perchè vagava nella
camera e seguiva mamma. Infatti squillò il telefono: era mia nipote Micaela
che voleva sapere come stavamo. Mia madre telefonò allora alla signora
Mirella del piano di sopra per sapere come stava lei e che cosa voleva fare.
Anche se lei, la mamma, già aveva deciso: nel caso, sarebbe morta con me.
Purtroppo, un anno esatto dopo, sono ancora vivo per vedere la mia città
natale distrutta con 308 morti: a L'Aquila e dintorni ho molti parenti e
amici, ho provato a studiare Biologia per tre anni, ho fatto l'usciere
universitario per quattro anni, ho tanti ricordi felici, pure amorosi.
Insomma, ho il cuore che sanguina ancora di più. E sono un Aquilano
parziale, perchè da molti anni risiedo a Casoli, in provincia di Chieti.
Immaginate gli abitanti come la mia carissima amica Cristina e la sua
famiglia: marito, tre figli, mamma anziana e fratelli. Poco fa, Cristina ha
scritto questo struggente ricordo di quella maledetta giornata:
"Oggi, 5 aprile 2010, il cielo è livido e carico di pioggia. Fa freddo
come in inverno, nulla ricorda il dolce tepore primaverile di quella
domenica delle Palme dello scorso anno.
5 aprile 2009: cerco nella memoria frammenti di immagini e sensazioni, ma di
quell' ultimo giorno della mia prima vita mi restano solo pochi
insignificanti particolari: il consueto pranzo nel tinello di mia madre , il
pomeriggio ad oziare in casa, qualche faccenda domestica, i figli maschi al
cinema con il loro papà. Poi la sera, gesti consueti, una cena improvvisata
con quel poco
che c'è in frigo. Non importa, domani avrò il mio turno di riposo, ci sarà
perciò tutto il tempo per fare la spesa con calma. Il grembiule del piccolo
da stirare, un rapido controllo agli zaini, le solite baruffe tra fratelli
prima di spegnere la luce, il bacio della buonanotte. Come sempre, come ogni
sera.
Sono al computer quando quel boato cupo torna a bussare alla mia finestra:
un sussulto violento, la mia sedia che indietreggia. Non si faceva vivo da
un po' , forse iniziavo già a dimenticarlo... sento una morsa che mi stringe
il petto, tremo, ho paura. Chiamo mia figlia, averla accanto mi
tranquillizza. I suoi fratelli per fortuna dormono, non si sono accorti di
nulla. Ok, è andata anche questa.... una delle tante, un po' più forte si,
ma adesso è tutto a posto. Quante volte, da mesi ormai, quel pensiero ci
aveva fatto provare un brivido... io però ero tranquilla, le voci
rassicuranti dei cosiddetti esperti mi avevano convinto che quell' odiosa
sequenza di scosse sarebbe
prima o poi finita. Così anche quella sera faccio appello, anche se a
fatica, alla mia lucidità e ad un forzato ottimismo: coraggio, proviamo a
dormire, domani c'è scuola. Irene è spaventata, lo leggo nei suoi occhi. Lei
resterà vestita, le scarpe accanto al suo letto. Io invece voglio
assurdamente convincermi che quella sarà una notte tranquilla, una notte
come tante: metto il pigiama, spengo la luce. Beata incoscienza.
Il boato ora è un urlo che squarcia il silenzio. Sono sveglia e già tutto
trema, la mano di Domenico stringe con forza la mia. Sento la mia casa
torcersi, avvitarsi su se stessa, bagliori violacei nella mia stanza, ma
cosa sono? Perchè non riesco a muovermi? Cerco a fatica l' interruttore
della mia abatjour, mi accorgo che non c'è luce. Siamo prigionieri di un
buio denso, spaventoso, il mostro non si placa, urla ancora, scuote
violentemente le pareti. Resto immobile e muta sotto il mio piumone: quanto
tempo è passato? Quando finirà ? Sento mia figlia gridare,
il piccolo piangere. La mia vicina di casa mi chiama, bussa forte alla mia
porta. Il mio bimbo è scalzo, non riusciamo a trovare le sue scarpe.
Tenendolo in braccio scendiamo a fatica in salone, le scale sono piene di
vetri. Buio, buio tutto intorno. Sono finalmente fuori in cortile, tremo dal
freddo. Uno studente si toglie il giaccone e me lo porge: lo abbraccio,
piango. L'aria è satura di gas: scappiamo da qui, scappiamo via... ma dove?
Dove sono mia madre e i miei fratelli, cosa ne è della mia città? Saliamo in
macchina incapaci di pensare, di capire. Villa Comunale, parte della mia
famiglia è già qui. Ci sono, sono vivi. Il buio ora sembra proteggere
pietosamente il nostro sguardo ma l' orrore si va pian piano svelando. Vedo
arrivare le unità cinofile, un urlo silenzioso mi squarcia l' anima. Via
S.Andrea, Via Campo di Fossa, Via Cola dell' Amatrice. Mia madre è salva, a
pochi passi da lei il mostro ha sbriciolato interi palazzi.
L'alba ci sveglierà forse da quest'orribile incubo. Forse... restiamo in
silenzio, infreddoliti. La terra trema ancora, ad ogni sussulto il cuore
sembra esplodere.
Ecco, è giorno. Ma che senso hanno questo sole tiepido, questa luce che
riflette i colori di primavera? Qui è ancora notte. Una lunghissima notte di
dolore."