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I Nagler e i 50 ebrei stranieri deportati da Trieste a Casoli

I Nagler e i 50 ebrei stranieri deportati da Trieste a Casoli

Il materiale pubblicato in questo articolo proviene da Trieste ed appartiene alle famiglie Nagler e Weintraub. A fornircelo è l'autore Livio Isaak Sirovich, grazie alla gentile collaborazione del Sig. Nicola Berghella

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Le immagini ed i testi di seguito riportati riguardano principalmente Salo e Giacomo Nagler, un padre ed un figlio internati a Casoli. Nel testo finale di Nicola Berghella il  racconto della famiglia Weintraub salvata a Castel Frentano. I Nagler ed i Weintraub erano molto amici.

I 50 ebrei stranieri deportati da Trieste a Casoli nel Luglio 1940. In penultima fila, il terzo da sinistra, con gli occhiali, Nagler Salo (fu Giacomo) il padre di Jakob-Giacomo Nagler (chiamato Kubi) deportato a Casoli dal campo di internamento di Ferramonti.

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Nagler Salo fu Giacomo  (ebreo apolide) n. 37 della lista

«…nel carcere di Trieste i prigionieri sono costretti col ricatto a pagare personalmente il viaggio. Gli dicono che in caso contrario il trasporto avverrebbe in manette e in un vagone prigionieri chiuso».
«Quel pomeriggio, mentre la colonna di prigionieri a piedi con la scorta di carabinieri ed il seguito di carretti per i bagagli saliva a passo lento i tornanti polverosi della strada del Sangro, ogni rupe del presepe aveva il suo ciuffo di ragazzini ed ogni finestra due o tre curiosi, impazienti di vedere chi arrivasse dalle città per cui nella Grande Guerra erano morti i casolani ricordati sul monumento in piazza».

 

Una lettera per Salo, il papà di Kubi, inviata da Trieste a Casoli nell’Ottobre del 1940

 

Il campo di concentramento di Ferramonti, nel comune di Tarsia (CS)

Il campo di concentramento italiano, in cui Jakob-Giacomo Nagler (Kubi) venne recluso prima di venire introdotto a Casoli e poi a Castel Frentano.
«Attorno, nulla, non un albero, non un arbusto, un calore insopportabile, umido e appicicaticcio». "Campo di concentramento di Ferramonti", questa è la denominazione ufficiale coniata dal Ministero dell'Interno. Si trovava 40 km a nord di Cosenza, in una zona depressa della valle del Fiume Crati, una regione infestata dalla malaria
.

 

Al centro Giacomo Nagler (Kubi)

 

Luglio 1943. Cartolina ricevuta da Kubi a Castel Frentano da un ex-compagno di prigionia a Casoli, Lager Sigfrido (n. 18 della lista dei nomi) poi detenuto nel Campo di Campagna (SA).

 

Novembre 1943. L'ultimo segno di vita di Kubi e dei suoi genitori, una cartolina spedita ad un indirizzo di comodo (Maria Rulli) per l’amico Arturo (Weintraub). L’ha scritta Kubi, che l’ha fatta firmare al papà Salo facendogli ingenuamente aggiungere il falso cognome “Bucci”. Sono prigionieri dei Tedeschi in un ex campo di detenzione per soldati anglo-americani. Salo aveva cominciato a tracciare la «N» di Nagler, ma poi ha corretto in «Salo NBucci - Chieti».

 

«...tua Rita»

Livio Isaak Sirovich, scrive una biografia storica “molto raccontata” attraverso i colloqui epistolari di Rita Rosani con il fidanzato Giacomo Nagler (Kubi). Nel testo si cita Casoli che viene chiamato anche "il presepe abruzzese" descrivendo il paese come un ambiente non ostile.

 

Jakob-Giacomo Nagler, fidanzato di Rita Rosano fino al '42, da tutti a Trieste chiamato Kubi. Indossa gli occhiali ritrovati a Castel Frentano oltre 60 anni dopo.

 

Tra il corredo fotografico di Rita Rosani, c'è anche questa foto scattata a Trieste, il 28 giugno 1942, all'uscita secondaria della sinagoga. "Matrimonio di una delle migliori amiche di Rita (e di mia madre). Il tempio era stato profanato nei giorni precedenti (i vetri della porta sono sostituiti da tavole di legno). Dopo gli scatti, l’amico fotografo venne affrontato da una pattuglia di squadristi, che gli aprirono la macchina fotografica per rovinare la pellicola. Questa, mezza bruciata dalla luce, è l’unica foto sopravvissuta". (Livio I. Sirovich)

 

Una traccia del libro di Sirovich non ancora pubblicato

 

Fiorita nel ’38, recisa nel ‘44.

Quasi sessant'anni dopo la loro morte - lei nei boschi a nord di Verona, lui ad Auschwitz - le lettere dal '40 al '43 di due fidanzati triestini sono misteriosamente ricomparse ad un'asta filatelica torinese. Il segreto della loro origine si è svelato solo anni dopo in mezzo alla sporcizia di un palazzotto nobiliare pericolante ai piedi della Majella, dove ho rinvenuto le ultime cose di lui abbandonate all’atto della cattura da parte dei tedeschi.
Racconto la vita di Rita partendo proprio dai colloqui epistolari col suo ragazzo, recluso dallo scoppio della guerra in un campo in Calabria per ebrei stranieri. Rita ha vent’anni e da due non è più la ragazza benestante e un po’ viziata di prima del ‘38. Spezzandole la vita, le leggi contro gli ebrei l’hanno fatta maturare in fretta. E anche a lui hanno preso tutto, cittadinanza, negozio e speranze nel futuro, perfino suo padre è stato deportato, in Abruzzo. Il capolinea della storia è negli atti di due processi del ‘46 contro l’assassino di Rita e nella motivazione della medaglia d’oro alla memoria.
Terzo protagonista di questa inusuale biografia femminile è un ufficiale un po’ guascone, reduce dalla Campagna di Russia, che il destino porta ad incontrare Rita mentre sono entrambi in fuga dopo l’8 settembre ’43. Potrebbe essere il secondo amore, ma sono piuttosto i pensieri e le incertezze di questa ragazza in rapida trasformazione che continuano a condurci attraverso gli anni forse più atroci della Storia d’Italia, dal 1938 alla fine della guerra.
Rita ha perso l’ingenuità di quando scriveva alla Posta del cuore di «Grazia». Su di lei hanno lasciato un segno profondo la mutazione antisemita di alcuni amici, l’accanimento del milite del campo di concentramento calabrese, che tagliuzzava la sua posta con le forbicine per le unghie, gli assalti alla sinagoga ed alla scuola ebraica, e poi la clandestinità e tanto altro, fino allo scontro di sentimenti fra aspiranti partigiani e giovani volontari di Salò. Quante volte le è parso che il mondo le franasse addosso, ma adesso l’inimmaginabile accade davvero ed il racconto si fa duro, fino al colpo di pistola sparatole in faccia mentre implora pietà.
Sessant'anni dopo, «...tua Rita» costringe un paio di protagonisti dell'epoca a raccontare al lettore con parole proprie i fatti del '44, senza filtri ma con riscontri documentali, e la storia diventa anche viaggio nell'uomo.

Riassunto e frammenti del testo

Si parte con una lettera dell’autunno del ’38 di una cuginetta del fidanzato di Rita, che è in fuga dalla Galizia. La ragazza racconta alla sorella già scappata a Cuba di aver inutilmente cercato di convincere gli zii triestini a mettersi in salvo.

testo:

2 ottobre 1938
Cara sorellina,
se ti scrivo a macchina è per dimostrarti che siamo finalmente a Trieste, dopo tre giorni di treno. Huh!, che giornate da incubo! All'inizio, volevamo venire qui dalla Galizia per la via più breve traversando Ungheria e Yugoslavia per non passare dalla Germania, ma dopo pochi giorni la Compagnia di navigazione francese, che doveva procurarci i visti a Varsavia, ci ha scritto che la Yugoslavia non permetteva il transito ai non ariani. La mamma ha subito chiesto di passare per la Cecoslovacchia e Vienna, ma dopo un altro paio di giorni la Cecoslovacchia fa saltare tutti i ponti con la Germania. Quando l'abbiamo saputo ci pareva di impazzire: come possiamo raggiungere Trieste? Ma' correva in giro come un pollo cui avessero tagliato la testa. Pensa che ha spedito alla Compagnia di navigazione una lettera destinata a Trieste a zia Eige, e alla zia l'altra lettera per i visti e la nave. Quando questa busta è finalmente tornata indietro... era Rosh Hashana!
[Capodanno ebraico; in Galizia, molti uffici erano chiusi] Ho avuto davvero paura che Ma' desse fuori di testa. E poi tutti dicono che la guerra sta per scoppiare, molti stati hanno già mobilitato le truppe, se lo fa anche la Polonia restiamo definitivamente bloccati! Sarebbe la fine. Pensa che abbiamo addirittura tentato di prendere un aereo. Ma no, cos'hai capito, non di rubarlo [la lettera è in francese e voler significa sia volare che rubare]. [...]

Gli ebrei triestini vengono colti di sorpresa dalla legislazione razzista italiana; molti abbandonano tutto, ma altri rimangono, si vive alla giornata. Le famiglie di Rita e del suo ragazzo, entrambe fuggite dai pogrom della Mitteleuropa e legate da profondissima amicizia, decidono assieme di non muoversi ed anzi, nel clima di disperazione per il lavoro perduto e gli studi forzatamente interrotti, i due ragazzi finiscono per fidanzarsi.
Subito dopo la dichiarazione di guerra, la maggior parte degli ebrei rimasti apolidi, viene incarcerata e successivamente internata nel Meridione. Al futuro suocero di Rita tocca Casoli, ai piedi della Majella in provincia di Chieti.

testo:

[...] nel carcere di Trieste, i prigionieri furono costretti col ricatto a pagare personalmente il viaggio. In caso contrario, il trasporto avrebbe avuto luogo in manette e in un vagone prigionieri chiuso. Come si legge nel registro, il 27 luglio il fidanzato di Rita venne «consegnato agli agenti di P.S., per destinazione non indicata negli atti» [...] il «Campo di concentramento» in una zona malarica della valle del Fiume Crati, in Calabria, un fossato largo un metro e mezzo, un cartello «limite del confino», una fila di baracche; attorno, nulla, un calore insopportabile, umido e appiccicaticcio.

Il libro continua ad intrecciare la corrispondenza fra i due ragazzi con la vita a Trieste ed in Abruzzo nei primi anni di guerra. Lei vivacchia nell’ambiente borghese, prevalentemente fascista della città, in cui cresce il gruppo violentemente antisemita che segue Preziosi e Farinacci.

testo:

I suoi genitori sono fuggiti dall'antisemitismo dei moravi. Ora tocca a Rita di sperimentare come alcuni suoi conoscenti triestini si trasformino in violenti nazionalisti antislavi ed antisemiti. E spesso si tratta di sloveni italianizzati o addirittura di ex ebrei battezzati, ragazzi con cui fino a due anni prima andava in montagna!, che ora scrivono: «Agli ebrei, a questi falsi italiani, a questi falsi vivi indegni del nostro odio, ma ben degni del nostro disprezzo, lanciamo un monito: a stroncare la loro subdola attività non esiteremo se sarà necessario di fronte a nessun provvedimento, anche se energico: ritorneremo al santo manganello e a quell'impareggiabile disintossicante integrale che è l'olio di ricino. E gli universitari fascisti saranno in prima linea».

Rita cerca di vincere la depressione, causatale dal forzato abbandono della scuola, accentuando una falsa spensieratezza da adolescente e fa qualche passo falso. Mille chilometri lontano, il fidanzato deve adattarsi alle baracche ed al filo spinato di Ferramonti (CS) e poi alle umide camerate ed agli usi di Casoli.

testo:

Fra i confinati sbattuti dai quartieri buoni di Trieste, di Vienna o di Dresda nel presepe abruzzese, ci sono anche giovani in età da moglie, ma non possono partecipare allo struscio [...]. Da generazioni, fra le cinque e le sette il Corso diventa il poligono di tiro degli sguardi fulminanti dei giovani maschi del paese. Qui si mira sparato negli occhi e non si guarda la donna per un istante, ma per un minuto, e in un minuto intero una donna - si dice - fa a tempo a salire al color rosso, garantito! Lei non ricambia mai le occhiate, ma sai che a un certo punto... a un certo punto ti ammicca dalle palpebre basse e allora tu devi farle «il» gesto, mentre dalle soglie i genitori o i loro onnipresenti ed innumerevoli parenti ti stanno tutti a guardare, senza darlo a vedere: ti passi la mano di sotto in su dai coglioni al membro, e le dai l'occhiata finale, quella che le dà la vampa e la brucia dalle dita dei piedi fino alla radice dei capelli. Vhum!, una sola fiammata come il roveto ardente. [...] Ma, a parte la gelosia dello struscio, l'ambiente non è ostile. Non ci sono antisemiti a Casoli, solo un paio di fascisti sfegatati e quindi non ci vuole molto perché le più nominate famiglie del paese comincino ad aprire discretamente le porte dei loro salotti a qualcuno dei giovani stranieri dal contegno così distinto, ed imparino ad apprezzarli.

I due ragazzi non possono rivedersi né scambiare frasi troppo intime per paura che i censori ne ridano. Così, mentre a Trieste sale la tensione antisemita e si verificano alcuni veri e propri pogrom, nei lunghi mesi di separazione il loro rapporto si sfilaccia e finisce. Continueranno a scriversi fino all’8 settembre del ‘43, ma solo da buoni amici.
Intanto, gli alleati risalgono la penisola, ma il ragazzo di Rita e i genitori, ormai riuniti a Castel Frentano in Abruzzo, esitano a varcare le linee per mettersi in salvo.

testo:

[...] Fa di nuovo freddo. 1940, 1941, 1942, 1943, è il quarto autunno che vede i ghiaioni del Monte Amaro coprirsi di bianco e gli aceri accendersi di giallo in mezzo al rosso cupo della faggeta della Majella ...il colore delle gite più ardite con Rita e con l'allegra compagnia di Trieste nella Selva di Tarnova, prima che l'intolleranza scoppiasse di nuovo. Monte Amaro, pochi chilometri da Casoli e da Castel Frentano, ma non c'è mai potuto andare. Quant'è amara la vita.
Adesso, si combatte sotto Vasto e anche sul versante tirrenico dell’Appennino; mentre, poco a nord di Trieste, in quella mitica Selva dove si poteva andare a tagliare le stanghe di ghiaccio in grotta perfino in agosto, c'è la guerriglia senza prigionieri. I partigiani sloveni colpiscono «a tradimento» lasciando morti e feriti. L'Esercito italiano e le Camicie nere rispondono con «fucilazioni esemplari», incendi di villaggi, finendo i partigiani feriti col «colpo di grazia».
Cresce l'odio, la Bestia urla.


L’ex fidanzato di Rita ed i suoi genitori vengono presi in trappola il 3 novembre del '43 nelle retrovie del fronte. Imprigionati nel gennaio del '44 nel carcere di San Vittore, finiscono ad Auschwitz, dove non superano la selezione.
La famiglia di Rita fugge da Trieste all’ultimo momento, prima che i tedeschi catturino la ragazza, che nel frattempo ha cominciato a darsi da fare nell’organizzazione clandestina di aiuto ai profughi ebrei in fuga dall’Italia. Provvisoriamente, si fermano a Lignano dove in circostanze avventurose approda anche un bell’ufficiale di Stato maggiore, che ha già deciso di combattere il fascismo. E’ proprio il colpo di fulmine “pericoloso” che ossessionava la posta del cuore di «Grazia» ed insieme si danno alla macchia.

testo:

[...] Dall’interrogatorio dell’ufficiale sentito come teste il 21 maggio 1946 presso la Corte di Assise straordinaria di Verona: «Sono e mi chiamo Ricca Umberto, Colonnello di artiglieria, ex-comandante partigiano "Rito" del Gruppo di bande armate "Pasubio". Il giorno 17 settembre 1944, essendo stata la mia banda "Aquila" circondata e completamente annientata dai nazifascisti, durante il ripiegamento, tenevo per mano la signorina Rita Rosani con la quale ripiegavo per ultimo. Ad un tratto, fummo investiti da una raffica di fucile mitragliatore.. la morte fu istantanea»
Ma Rita non morì così.
[...]

L'AUTORE

Nato nella Trieste allora contesa tra Italia e Yugoslavia da madre ebrea lituano-tedesca e da padre di antica origine dalmata, Livio Sirovich ha scritto:

- «Cari, non scrivetemi tutto; gli Isaak, una famiglia in trappola fra Hitler e Stalin» (Le Scie Mondadori 1995; traduzione tedesca: Antje Kunstmann, Monaco 2001; suggerito al primo posto fra i libri sulla Shoah da Claudio Magris su Tutto Libri de La Stampa del 19/1/02; selezionato dall'Unione Italiana Ciechi per la sua serie «Libro Parlato»);

- «Cime Irredente; un tempestoso caso storico alpinistico» (Vivalda 1996, V ristampa 2003; premio «Cardo d'Argento ITAS» 1997, e «Frontiera» 1998; "avvincente, crudele, divertente racconto" per La Gazzetta del Mezzogiorno, 15/9/96; "scheletri nell'armadio, ardori veri e finti, eroismi e conversioni di una città di confine in una scrittura accattivante dal tono diaristico-narrativo", Ernesto Galli della Loggia, L'Espresso, 6/2/97);

- il romanzo storico-identitario «La Notte delle Faville» (Mursia, 2007) ambientato in un villaggio todesco della Carnia occupata dai cosacchi nel 1944 (recensione Rumiz su La Repubblica 3/3/2007, Giulio Busi sul domenicale del Sole24Ore del 23/9/2007);

 - (ed, a quattro mani, «Il Tinisa», Lint 1983, libro etnografico e naturalistico premiato al Festival della Montagna di Trento, ristampato nel 1992).

Nelle ore diurne, Sirovich è ricercatore dell'Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS).


 

La famiglia Weintraub salvata da una famiglia di Castel Frentano

di Nicola Berghella

 

Nella foto sbiadita che vedete, in piedi a sinistra il signor Arturo Weintraub, la moglie sotto di lui e in basso la figlioletta Rosetta, che erano alloggiati a Castel Frentano presso mia suocera Maria Rulli nella casa in Via S. Giorgio dietro il palazzo scolastico con scalinata esterna (a tutt’oggi uguale come allora). La fotografia mostra mia suocera, in alto a destra, e sotto di lei a destra la ragazza, Leda, che poi è diventata mia moglie, conosciuta nel 1947 e sposata nel 1950.
La famiglia Weintraub riuscì a salvarsi dagli orrori delle persecuzioni di quel periodo e la signora Rosetta, la bambina di allora oggi ultrasettantenne, vive a Trieste e telefonicamente ci siamo sentiti fino a qualche anno fa.
La loro salvezza si concretizzò avventurosamente proprio in quella casa durante un rastrellamento da parte di soldati delle SS tedesche alla ricerca di ebrei da arrestare (e diversi vennero arrestati).
Mia suocera faceva la sarta e aveva alle dipendenze diverse ragazze, le sartine di allora. Durante il rastrellamento la famiglia Weintraub si nascose sotto un letto matrimoniale e tutte le ragazze, compresa la futura mia moglie, si piazzarono davanti alla porta facendo di tutto per distrarre i giovani soldati. Così i Weintraub furono salvi e furono oltremodo riconoscenti.
La famiglia Weintrub era molto amica della famiglia Nagler che dimorava presso i Fresca, allora in Via Delle Rose.
Tra i documenti pubblicati in questa pagina, c’è una cartolina inviata, allora, a mia suocera Maria Rulli per il signor Arturo Weintraub, all’indirizzo di via S. Giorgio, dove io stesso poi ho abitato con mia moglie per un po’ di anni, prima di trasferirmi nel palazzo Paolucci, (attuale Ciarla), poi a Lanciano e successivamente a Roma.

I Nagler furono arrestati a Castel Frentano e, dopo diverse peripezie e disavventure, finirono i loro giorni nel campo di sterminio di Auschwitz. Lasciarono tutte le loro cose in un grosso baule (pare anche una bella somma di danaro) in custodia a don Peppino Cavacini, un gaudente signorotto, molto ricco e possidente terriero che è sempre vissuto solo nel palazzetto avito, con una piccola corte di amici e “amiche”, alla cui morte senza eredi si è aperto un lungo contenzioso sull’eredità che è durato molti anni.
Naturalmente il baule dei Nagler, morti nel lager, è rimasto nella casa di Don Peppino.

Quanto sopra quale contributo alla storia di un periodo tragico a cui quelli della mia età hanno sacrificato il periodo più bello della vita, quello dei vent’anni, e molti,anzi moltissimi, hanno sacrificato tutta la vita.

Nicola Berghella

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Inserito da Carmen il 27/01/2011 alle ore 08:00:32 - sez. Storia - visite: 18466