Fiorita nel ’38, recisa nel ‘44.
Quasi sessant'anni dopo la loro morte - lei nei boschi a nord di Verona,
lui ad Auschwitz - le lettere dal '40 al '43 di due fidanzati triestini
sono misteriosamente ricomparse ad un'asta filatelica torinese. Il segreto della
loro origine si è svelato solo anni dopo in mezzo alla sporcizia di un
palazzotto nobiliare pericolante ai piedi della Majella, dove ho rinvenuto le
ultime cose di lui abbandonate all’atto della cattura da parte dei tedeschi.
Racconto la vita di Rita partendo proprio dai colloqui epistolari col suo
ragazzo, recluso dallo scoppio della guerra in un campo in Calabria per
ebrei stranieri. Rita ha vent’anni e da due non è più la ragazza
benestante e un po’ viziata di prima del ‘38. Spezzandole la vita, le leggi
contro gli ebrei l’hanno fatta maturare in fretta. E anche a lui hanno preso
tutto, cittadinanza, negozio e speranze nel futuro, perfino suo padre è stato
deportato, in Abruzzo. Il capolinea della storia è negli atti di due processi
del ‘46 contro l’assassino di Rita e nella motivazione della medaglia d’oro alla
memoria.
Terzo protagonista di questa inusuale biografia femminile è un ufficiale un po’
guascone, reduce dalla Campagna di Russia, che il destino porta ad incontrare
Rita mentre sono entrambi in fuga dopo l’8 settembre ’43. Potrebbe essere il
secondo amore, ma sono piuttosto i pensieri e le incertezze di questa ragazza in
rapida trasformazione che continuano a condurci attraverso gli anni forse più
atroci della Storia d’Italia, dal 1938 alla fine della guerra.
Rita ha perso l’ingenuità di quando scriveva alla Posta del cuore di «Grazia».
Su di lei hanno lasciato un segno profondo la mutazione antisemita di alcuni
amici, l’accanimento del milite del campo di concentramento calabrese, che
tagliuzzava la sua posta con le forbicine per le unghie, gli assalti alla
sinagoga ed alla scuola ebraica, e poi la clandestinità e tanto altro, fino allo
scontro di sentimenti fra aspiranti partigiani e giovani volontari di Salò.
Quante volte le è parso che il mondo le franasse addosso, ma adesso
l’inimmaginabile accade davvero ed il racconto si fa duro, fino al colpo di
pistola sparatole in faccia mentre implora pietà.
Sessant'anni dopo, «...tua Rita» costringe un paio di protagonisti
dell'epoca a raccontare al lettore con parole proprie i fatti del '44,
senza filtri ma con riscontri documentali, e la storia diventa anche viaggio
nell'uomo.
Riassunto e frammenti del testo
Si parte con una lettera dell’autunno del ’38 di una cuginetta del fidanzato di
Rita, che è in fuga dalla Galizia. La ragazza racconta alla sorella già scappata
a Cuba di aver inutilmente cercato di convincere gli zii triestini a mettersi in
salvo. testo: 2 ottobre 1938
Cara sorellina,
se ti scrivo a macchina è per dimostrarti che siamo finalmente a Trieste, dopo
tre giorni di treno. Huh!, che giornate da incubo! All'inizio, volevamo venire
qui dalla Galizia per la via più breve traversando Ungheria e Yugoslavia per non
passare dalla Germania, ma dopo pochi giorni la Compagnia di navigazione
francese, che doveva procurarci i visti a Varsavia, ci ha scritto che la
Yugoslavia non permetteva il transito ai non ariani. La mamma ha subito chiesto
di passare per la Cecoslovacchia e Vienna, ma dopo un altro paio di giorni la
Cecoslovacchia fa saltare tutti i ponti con la Germania. Quando l'abbiamo saputo
ci pareva di impazzire: come possiamo raggiungere Trieste? Ma' correva in giro
come un pollo cui avessero tagliato la testa. Pensa che ha spedito alla
Compagnia di navigazione una lettera destinata a Trieste a zia Eige, e alla zia
l'altra lettera per i visti e la nave. Quando questa busta è finalmente tornata
indietro... era Rosh Hashana! [Capodanno ebraico; in Galizia, molti uffici
erano chiusi] Ho avuto davvero paura che Ma' desse fuori di testa. E poi
tutti dicono che la guerra sta per scoppiare, molti stati hanno già mobilitato
le truppe, se lo fa anche la Polonia restiamo definitivamente bloccati! Sarebbe
la fine. Pensa che abbiamo addirittura tentato di prendere un aereo. Ma no,
cos'hai capito, non di rubarlo [la lettera è in francese e voler significa
sia volare che rubare]. [...]
Gli ebrei triestini vengono colti di sorpresa dalla legislazione razzista
italiana; molti abbandonano tutto, ma altri rimangono, si vive alla giornata. Le
famiglie di Rita e del suo ragazzo, entrambe fuggite dai pogrom della
Mitteleuropa e legate da profondissima amicizia, decidono assieme di non
muoversi ed anzi, nel clima di disperazione per il lavoro perduto e gli studi
forzatamente interrotti, i due ragazzi finiscono per fidanzarsi.
Subito dopo la dichiarazione di guerra, la maggior parte degli ebrei
rimasti apolidi, viene incarcerata e successivamente internata nel Meridione.
Al futuro suocero di Rita tocca Casoli, ai piedi della Majella in provincia di
Chieti. testo: [...]
nel carcere di Trieste, i prigionieri furono costretti col ricatto a pagare
personalmente il viaggio. In caso contrario, il trasporto avrebbe avuto luogo in
manette e in un vagone prigionieri chiuso. Come si legge nel registro, il 27
luglio il fidanzato di Rita venne «consegnato agli agenti di P.S., per
destinazione non indicata negli atti» [...] il «Campo di concentramento»
in una zona malarica della valle del Fiume Crati, in Calabria, un fossato largo
un metro e mezzo, un cartello «limite del confino», una fila di baracche;
attorno, nulla, un calore insopportabile, umido e appiccicaticcio.
Il libro continua ad intrecciare la corrispondenza fra i due ragazzi con la vita
a Trieste ed in Abruzzo nei primi anni di guerra. Lei vivacchia nell’ambiente
borghese, prevalentemente fascista della città, in cui cresce il gruppo
violentemente antisemita che segue Preziosi e Farinacci.
testo: I suoi genitori sono fuggiti
dall'antisemitismo dei moravi. Ora tocca a Rita di sperimentare come alcuni suoi
conoscenti triestini si trasformino in violenti nazionalisti antislavi ed
antisemiti. E spesso si tratta di sloveni italianizzati o addirittura di ex
ebrei battezzati, ragazzi con cui fino a due anni prima andava in montagna!, che
ora scrivono: «Agli ebrei, a questi falsi italiani, a questi falsi vivi
indegni del nostro odio, ma ben degni del nostro disprezzo, lanciamo un monito:
a stroncare la loro subdola attività non esiteremo se sarà necessario di fronte
a nessun provvedimento, anche se energico: ritorneremo al santo manganello e a
quell'impareggiabile disintossicante integrale che è l'olio di ricino. E gli
universitari fascisti saranno in prima linea».
Rita cerca di vincere la depressione, causatale dal forzato
abbandono della scuola, accentuando una falsa spensieratezza da adolescente e fa
qualche passo falso. Mille chilometri lontano, il fidanzato deve adattarsi
alle baracche ed al filo spinato di Ferramonti (CS) e poi alle umide camerate ed
agli usi di Casoli.
testo: Fra i confinati sbattuti dai
quartieri buoni di Trieste, di Vienna o di Dresda
nel presepe abruzzese, ci sono anche giovani in età da moglie, ma non
possono partecipare allo struscio [...]. Da generazioni, fra le
cinque e le sette il Corso diventa il poligono di tiro degli sguardi fulminanti
dei giovani maschi del paese. Qui si mira sparato negli occhi e non si
guarda la donna per un istante, ma per un minuto, e in un minuto intero una
donna - si dice - fa a tempo a salire al color rosso, garantito! Lei non
ricambia mai le occhiate, ma sai che a un certo punto... a un certo punto ti
ammicca dalle palpebre basse e allora tu devi farle «il» gesto, mentre dalle
soglie i genitori o i loro onnipresenti ed innumerevoli parenti ti stanno tutti
a guardare, senza darlo a vedere: ti passi la mano di sotto in su dai coglioni
al membro, e le dai l'occhiata finale, quella che le dà la vampa e la brucia
dalle dita dei piedi fino alla radice dei capelli. Vhum!, una sola fiammata come
il roveto ardente.
[...] Ma, a parte la gelosia dello struscio, l'ambiente non è ostile. Non
ci sono antisemiti a Casoli, solo un paio di fascisti sfegatati e quindi non ci
vuole molto perché le più nominate famiglie del paese comincino ad aprire
discretamente le porte dei loro salotti a qualcuno dei giovani stranieri dal
contegno così distinto, ed imparino ad apprezzarli.
I due ragazzi non possono rivedersi né scambiare frasi troppo intime per paura
che i censori ne ridano. Così, mentre a Trieste sale la tensione antisemita e si
verificano alcuni veri e propri pogrom, nei lunghi mesi di separazione il loro
rapporto si sfilaccia e finisce. Continueranno a scriversi fino all’8
settembre del ‘43, ma solo da buoni amici.
Intanto, gli alleati risalgono la penisola, ma il ragazzo di Rita e i genitori,
ormai riuniti a Castel Frentano in Abruzzo, esitano a varcare le linee
per mettersi in salvo. testo: [...] Fa di
nuovo freddo. 1940, 1941, 1942, 1943, è il quarto autunno che vede i ghiaioni
del Monte Amaro coprirsi di bianco e gli aceri accendersi di giallo in mezzo al
rosso cupo della faggeta della Majella ...il colore delle gite più ardite con
Rita e con l'allegra compagnia di Trieste nella Selva di Tarnova, prima che
l'intolleranza scoppiasse di nuovo. Monte Amaro, pochi chilometri da Casoli e
da Castel Frentano, ma non c'è mai potuto andare. Quant'è amara la vita.
Adesso, si combatte sotto Vasto e anche sul versante tirrenico
dell’Appennino; mentre, poco a nord di Trieste, in quella mitica Selva dove si
poteva andare a tagliare le stanghe di ghiaccio in grotta perfino in agosto, c'è
la guerriglia senza prigionieri. I partigiani sloveni colpiscono «a tradimento»
lasciando morti e feriti. L'Esercito italiano e le Camicie nere rispondono con
«fucilazioni esemplari», incendi di villaggi, finendo i partigiani feriti col
«colpo di grazia».
Cresce l'odio, la Bestia urla.
L’ex fidanzato di Rita ed i suoi genitori vengono presi in trappola il 3
novembre del '43 nelle retrovie del fronte. Imprigionati nel gennaio del '44 nel
carcere di San Vittore, finiscono ad Auschwitz, dove non superano la selezione.
La famiglia di Rita fugge da Trieste all’ultimo momento, prima che i tedeschi
catturino la ragazza, che nel frattempo ha cominciato a darsi da fare
nell’organizzazione clandestina di aiuto ai profughi ebrei in fuga dall’Italia.
Provvisoriamente, si fermano a Lignano dove in circostanze avventurose approda
anche un bell’ufficiale di Stato maggiore, che ha già deciso di combattere il
fascismo. E’ proprio il colpo di fulmine “pericoloso” che ossessionava la posta
del cuore di «Grazia» ed insieme si danno alla macchia. testo:
[...]
Dall’interrogatorio dell’ufficiale sentito come teste il 21 maggio 1946
presso la Corte di Assise straordinaria di Verona: «Sono e mi chiamo Ricca
Umberto, Colonnello di artiglieria, ex-comandante partigiano "Rito" del Gruppo
di bande armate "Pasubio". Il giorno 17 settembre 1944, essendo stata la mia
banda "Aquila" circondata e completamente annientata dai nazifascisti, durante
il ripiegamento, tenevo per mano la signorina Rita Rosani con la quale
ripiegavo per ultimo. Ad un tratto, fummo investiti da una raffica di fucile
mitragliatore.. la morte fu istantanea»
Ma Rita non morì così. [...]
L'AUTORE
Nato nella Trieste allora contesa tra Italia e Yugoslavia da madre ebrea
lituano-tedesca e da padre di antica origine dalmata, Livio Sirovich ha
scritto: - «Cari, non scrivetemi tutto; gli Isaak,
una famiglia in trappola fra Hitler e Stalin» (Le Scie Mondadori 1995;
traduzione tedesca: Antje Kunstmann, Monaco 2001; suggerito al primo posto fra i
libri sulla Shoah da Claudio Magris su Tutto Libri de La Stampa del 19/1/02;
selezionato dall'Unione Italiana Ciechi per la sua serie «Libro Parlato»);
- «Cime Irredente; un tempestoso caso storico alpinistico»
(Vivalda 1996, V ristampa 2003; premio «Cardo d'Argento ITAS» 1997, e «Frontiera»
1998; "avvincente, crudele, divertente racconto" per La Gazzetta del
Mezzogiorno, 15/9/96; "scheletri nell'armadio, ardori veri e finti, eroismi e
conversioni di una città di confine in una scrittura accattivante dal tono
diaristico-narrativo", Ernesto Galli della Loggia, L'Espresso, 6/2/97);
- il romanzo storico-identitario «La Notte delle Faville» (Mursia,
2007) ambientato in un villaggio todesco della Carnia occupata dai cosacchi nel
1944 (recensione Rumiz su La Repubblica 3/3/2007, Giulio Busi sul domenicale del
Sole24Ore del 23/9/2007); - (ed, a quattro mani, «Il
Tinisa», Lint 1983, libro etnografico e naturalistico premiato al
Festival della Montagna di Trento, ristampato nel 1992). Nelle
ore diurne, Sirovich è
ricercatore dell'Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica
Sperimentale (OGS). |
Nella foto sbiadita che vedete, in piedi a sinistra il signor
Arturo Weintraub, la moglie sotto di lui e in basso la figlioletta
Rosetta, che erano alloggiati a Castel Frentano presso mia suocera Maria
Rulli nella casa in Via S. Giorgio dietro il palazzo scolastico
con scalinata esterna (a tutt’oggi uguale come allora). La fotografia mostra mia
suocera, in alto a destra, e sotto di lei a destra la ragazza, Leda, che
poi è diventata mia moglie, conosciuta nel 1947 e sposata nel 1950.
La famiglia Weintraub riuscì a salvarsi dagli orrori delle persecuzioni di quel
periodo e la signora Rosetta, la bambina di allora oggi ultrasettantenne, vive a
Trieste e telefonicamente ci siamo sentiti fino a qualche anno fa.
La loro salvezza si concretizzò avventurosamente proprio in quella casa durante
un rastrellamento da parte di soldati delle SS tedesche alla ricerca di ebrei da
arrestare (e diversi vennero arrestati).Mia suocera faceva la
sarta e aveva alle dipendenze diverse ragazze, le sartine di allora. Durante il
rastrellamento la famiglia Weintraub si nascose sotto un letto matrimoniale e
tutte le ragazze, compresa la futura mia moglie, si piazzarono davanti alla
porta facendo di tutto per distrarre i giovani soldati.
Così i Weintraub furono salvi e furono oltremodo riconoscenti.
La famiglia Weintrub era molto amica della famiglia Nagler che dimorava
presso i Fresca, allora in Via Delle Rose.Tra i documenti pubblicati in questa pagina, c’è una
cartolina inviata, allora, a mia suocera
Maria Rulli per il signor Arturo Weintraub, all’indirizzo di via S. Giorgio, dove io stesso poi ho abitato con mia
moglie per un po’ di anni, prima di trasferirmi nel palazzo Paolucci, (attuale
Ciarla), poi a Lanciano e successivamente a Roma.
I Nagler furono arrestati a Castel Frentano e, dopo diverse
peripezie e disavventure, finirono i loro giorni nel campo di sterminio di
Auschwitz. Lasciarono tutte le loro cose in un grosso
baule (pare anche una bella somma di danaro) in custodia a don Peppino Cavacini,
un gaudente signorotto, molto ricco e possidente terriero che è sempre vissuto
solo nel palazzetto avito, con una piccola corte di amici e “amiche”, alla cui
morte senza eredi si è aperto un lungo contenzioso sull’eredità che è durato
molti anni.
Naturalmente il baule dei Nagler, morti nel lager, è rimasto nella casa di Don
Peppino. Quanto sopra quale contributo alla storia di un periodo tragico a cui quelli
della mia età hanno sacrificato il periodo più bello della vita, quello dei
vent’anni, e molti,anzi moltissimi, hanno sacrificato tutta la vita.
Nicola Berghella |