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Redazione il 26/12/2010 alle ore 18:27:42 - sez.
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Il film “Noi Credevamo” dimentica Panfilo Serafini
A chi conosce la tragica storia del Serafini, vedendo il film, è sembrato comunque di vederlo in quelle celle umidissime, fredde e buie, ricavate nella roccia, con le catene alle caviglie che lo legano ad un altro carcerato
Il film “Noi Credevamo” dimentica Panfilo Serafini
di
Ezio Pelino
Suscita interesse e discussione il bel film di Mario Martone “Noi Credevamo”. Fra i tanti episodi e le tante ambientazioni,
quella centrale colpisce, anzi ferisce. E’ quella dei patrioti mazziniani e
liberali che marciscono nelle carceri borboniche. Nell’ orrido bagno penale
di Montefusco, fra i molti, si distinguono Carlo Poerio e il
Duca Sigismondo Castromediano. Mentre non compare il patriota sulmonese Panfilo Serafini che
pure è stato, per anni, loro compagno di cella. E’ lo stesso Castromediano
che, nel suo libro di memorie Carceri e galere politiche, ricorda il suo
compagno di detenzione Serafini, esprimendo apprezzamento per la sua vasta
cultura e preoccupazione per le sofferenze e la salute malferma del
sulmonese. E il caso volle che, liberati dopo anni di galera, fosse proprio
il Duca Sigismondo Castromediano a riconoscere il Serafini, al Largo
Mercatello di Napoli, alla luce di un lampione, in un uomo che giaceva in un
angolo e si lamentava con un “soffocante lamento”. Era svenuto, per fame.
Nessuno degli uomini nuovi al potere si era ricordato di lui, che pure
quella rivoluzione aveva voluto e per essa aveva pagato con sofferenze
indescrivibili, che il film riesce a far rivivere meglio di quanto avrebbero
potuto le parole.
A chi conosce la tragica storia del Serafini, vedendo il
film, è sembrato comunque di vederlo in quelle celle umidissime, fredde e
buie, ricavate nella roccia, con le catene alle caviglie che lo legano ad un
altro carcerato. Un eroe della più pura tradizione risorgimentale, un Silvio Pellico abruzzese.
Aveva solo trentasei anni, quando, il 21 marzo 1854, fu
condannato dalla borbonica Gran Corte Speciale di Aquila "alla pena di anni
venti di ferri". Prima al bagno penale di Montefusco, poi, insieme ai suoi
compagni, a Montesarchio e, quindi, all’ergastolo di Procida. Furono le loro
Guantanamo. Le lettere dal carcere del Serafini testimoniano le sue
terribili sofferenze, i continui ascessi causati dai ferri alle caviglie, i
frequenti sbocchi di sangue, la tisi.
Distrutto nel fisico, ma non nello
spirito, riuscì persino a scrivere un saggio sul Canzoniere di Dante, senza
disporre del testo, che gli fu sempre negato. Passò “la sua vita -
scrisse Benedetto Croce - fra triboli e dolori, (…) c’è una pagina che
egli non scrisse con la penna ma col miglior sangue del suo cuore, e che con la
penna trascrissero poi i magistrati che lo condannarono”.
Grazie al mutato clima
politico, il 29 agosto del ’59, fu graziato insieme ai suoi compagni, e
assegnato al domicilio coatto sotto sorveglianza a Chieti. L’anno
successivo, finalmente, Garibaldi, spazzando il regime borbonico, lo liberò
del tutto. Il suo sogno dell’Italia unita, libera e indipendente, si era
realizzato. Vi aveva speso la vita. La sua gioia era grande. Ma era anche
l’ora dei gattopardi. Dopo il pietoso incontro con il Duca di Castromediano
e dietro suo interessamento, gli offrirono un posto…da inserviente presso la
biblioteca pubblica di Napoli. Rifiutò.
Tornò a Sulmona, dove finalmente
ottiene qualche modesto riconoscimento: l’incarico di assessore comunale e
la presidenza di una società operaia. Sollecitato dagli amici a presentarsi
candidato per l’VIII legislatura alla Camera dei deputati, nel collegio di
Popoli, non viene eletto.
Potè vivere grazie all’ospitalità di un amico
vero, il dott. Giuseppe Di Rocco, che lo aveva già aiutato durante la
detenzione. Allora, per essere autorizzato a scrivergli, Serafini lo aveva
fatto passare per un parente, lo chiamava zio. Nella casa dell’ amico morì
l’11 novembre del 1864, logorato dalle sofferenze patite. Aveva solo 47
anni. Serafini, al pari del Pellico, non era accusato di fatti di sangue.
Il
suo terribile crimine era un sonetto anonimo e un manifestino dal titolo
“Protesta del popolo napoletano”, stampato dalla locale tipografia Angeletti
e affisso sulla porta di casa del sindaco.
Il sonetto fu attributo a
Serafini dalla Gran Corte Speciale e così ritennero tutti gli studiosi
sulmonesi. Ma Croce sostenne, sulla base delle testimonianze che aveva
potuto raccogliere, che era stato scritto da Leopoldo Dorrucci, un dotto
sacerdote liberale.
Se Serafini, innocente, non ha tradito un amico, anzi ha
scontato per lui la pena, ancora più nobile è la sua figura. Scriveva, nel
1913, il grande filosofo: “E’ trascorso quasi mezzo secolo dalla morte di
Panfilo Serafini; ma il ricordo di lui, delle sue parole e azioni, di tutta
la sua persona, è ancora così vivo e popolare tra i suoi concittadini come
se egli si fosse dipartito da essi pur ieri. Il nome di Serafini si
pronuncia con venerazione fra i paesani, con orgoglio e vanto ai
forestieri”. I sulmonesi di Filadelfia avevano raccolto il denaro per
ristampare le sue opere e per “porgli un monumento nella città natale”.
La
ristampa ci fu, ma non il monumento.
Il suo corpo fu traslato molti anni dopo, nel 1881,
nella chiesa della SS. Annunziata. Il suo ritratto postumo è opera di Teofilo
Patini. Il pittore era molto orgoglioso del personaggio e
del suo dipinto, tanto da chiedere, con parole solenni, che fosse “collocato
in una delle migliori sale comunali perché il soggetto di questo mio quadro
è degno di un culto cittadino”. Serafini è al centro, in piedi, austero e
risoluto, la destra chiusa a pugno sul tavolo, la sinistra regge un libro,
la fronte è alta e prominente, lo sguardo, acuto e penetrante, guarda
lontano. E’ la figura di un Padre della Patria. Dimenticato. Anche dal film,
che ricorda i suoi compagni ma non lui.
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