“Terroni”, il libro di Pino Aprile, impazza nelle
librerie dall’estate scorsa, è stato più venduto di tutte le
pubblicazioni sul Risorgimento messe insieme. La tesi di fondo è che il
Mezzogiorno era una sorta di Eldorado, ridotto alle condizioni attuali
dal saccheggio sanguinario perpetrato dai piemontesi. Pertanto la
questione meridionale non presisterebbe all’unificazione nazionale ma ne
sarebbe la conseguenza. La tesi presentata dall’autore con grande forza
comunicativa ha suggestionato e convinto molti e combinandosi con le
opposte tesi della Lega ha raffreddato gli entusiasmi per le
celebrazioni dei 150 anni dell’unità nazionale.
Ne sono usciti appannati, se non macchiati, tanti
personaggi ed eroi risorgimentali e il movimento stesso. La discussione
che ne è seguita, tuttora in corso, non è arrivata ad una conclusione
condivisa. Forse qualche lume sulla fondatezza o meno delle tesi
sostenute dal pamphlet lo si può avere dalla lettura dei più accreditati
studiosi meridionali dell’epoca. Da Pasquale Villari a Giustino
Fortunato a Adolfo Amodeo a Benedetto Croce. Essi ci fanno la sorpresa
di avere un’ opinione molto diversa da quella di Pino Aprile. Non
attribuiscono all’unità nazionale appena raggiunta l’arretratezza del
sud, e come potrebbero!, ma se ne addolorano, la ascrivono al retaggio
del Regno di Napoli e si cimentano ad individuarne le ragioni. Pasquale
Villari le attribuisce all'agricoltura, che non ha conosciuto alcuna
trasformazione di tipo capitalistico, mentre vi domina un tipo di
organizzazione e di gestione di chiara origine feudale. L'immensa
distesa del latifondo è di proprietà di una borghesia assenteista che ha
rilevato non solo le proprietà ma anche gli usi e i modi
dell'aristocrazia, mentre nel centro e nel nord Italia è diffusa la
media e piccola proprietà.
Giustino Fortunato sfata la leggenda del Mezzogiorno
terra fertile e ricca. Le campagne del sud sono, invece, aride, sterili,
ingrate, malariche, irrimediabilmente povere, dal punto di vista
agricolo-produttivo inferiori al resto della penisola. Adolfo Amodeo,
allievo e amico di Croce, ne condivide l’ apprezzamento per il
Risorgimento, espressione e modello del grande ideale umano del
liberalismo europeo. Sulla realtà del meridione Croce, indiscutibile
garante di profonda conoscenza della storia napoletana, scrive una delle
sue più belle e godibili opere, la “Storia del Regno di Napoli”. Per lui
“la dissoluzione di quel regno ” fu l’ “unico mezzo per conseguire una
più larga e alacre vita nazionale, e per dare migliore avviamento agli
stessi problemi (sic!) che travagliavano l’Italia del mezzogiorno”. E
questi problemi , a giudizio del Croce, vennero subito in luce “ nei
primi giorni dell’unità , quando scacciati i Borboni e introdotta la
costituzione liberale, il governo della nuova Italia, invece di
assistere al miracolo del bel paese redento, rasserenato e luminoso, si
trovò di fronte il brigantaggio nelle province, la delinquenza della
plebe nell’antica capitale, la generale indisciplina e abbiettezza”.
I primi visitatori e osservatori italiani e stranieri
rilevarono come a Napoli vi fossero solo due classi, i letterati e il
popolo, mentre fosse assente la borghesia commerciale e industriale e
nelle campagne furono colpiti dall’arretratezza di vita delle
popolazioni, dai sistemi di agricoltura, dal nomadismo dei pastori e dei
contadini, dalle prepotenze dei possidenti, dalla miseria e l’odio delle
plebi, e si convinsero che il brigantaggio fosse “nella natura e negli
istinti di questi popoli”. Il Cavour ne era consapevole e , ricorda
Croce, fin sul letto di morte si preoccupava dei “nostri poveri
napoletani, così intelligenti” ma così corrotti da un lungo malgoverno.
Il grande abruzzese di nascita e napoletano di adozione si interroga da
par suo sulle cause di tanta arretratezza e non le trova nella
geografia, nella qualità della terra, come Giustino Fortunato con il
quale ha uno scambio di opinioni in proposito, ma nella storia. E la
storia, per Croce è “azione spirituale, così ogni problema pratico e
politico è problema spirituale e morale”.
Certo che sarebbero stati utili quelli che egli
chiama i “rimedi empirici”, le riforme, da quella tributaria a quella
delle tariffe commerciali, dai decentramenti amministrativi al
rimboschimento, agli acquedotti e ad altri lavori pubblici, agli scambi
con l’oriente da riprendere come ai tempi normanno-svevi, ma è la
“cultura” del popolo che va cambiata. Croce non usa l’espressione
“rivoluzione culturale”, ma di questo si tratta. Di formare il
cittadino. Il cittadino responsabile, capace di non vedere solo il
proprio utile, ma di pensare al bene comune. Egli cita, fra l’altro, il
giudizio lapidario del generale inglese Moore:” non v’ha nessuna parte
del mondo così priva di spirito di pubblico come Napoli”, e il Lamarque
che nel 1807, in epoca non sospetta, aveva affermato sgomento:”Questo
reame non somiglia ad alcun’altra parte civile d’Europa”. Don Benedetto
, nel denunciare la generale indifferenza per la cosa pubblica, la
diffusa pigrizia, la cattiva filosofia del “farsi i fatti propri”, la
ritrosia, anche da parte dei migliori, ad assumere incarichi pubblici
per paura di compromettersi, chiama ad un’opera collettiva, ad una sorta
di mobilitazione di tutti i possibili educatori, a cominciare dai
maestri di scuola, ma non solo essi, perché ciascuno, nella propria
cerchia di influenza, faccia quel che gli spetta di fare per “promuovere
un nuovo e più alto costume, una nuova e più alta disposizione negli
animi e nelle volontà, dal modificare in meglio la società in mezzo a
cui si vive, godendo di quest’opera come un artista della sua pittura o
della sua statua, e un poeta della sua poesia”.
Un’operazione difficile, forse impossibile, forse mai cominciata. E
l’immondizia che la città non riesce a vincere, ma che periodicamente
torna a ricoprila, è molto più di un metafora sulla capitale del Regno.