Goffredo Mameli (Genova 5 settembre 1827 - Roma
6 luglio 1849)
Su “Il Centro” del 15 giugno scorso, è apparso un
articolo a firma di Bruno Dante dal titolo “Il bluff di
Benigni sull’inno nazionale” in cui si sostiene che l’inno
nazionale non sarebbe di Mameli, dell’eroe mazziniano della
Repubblica romana, ma sarebbe stato scritto dal frate scolopio
Atanasio Canata, un patriota monarchico di cultura
cristiano-liberale e giobertiana. Il giovane Goffredo Mameli, che
sarebbe stato ospite del religioso al Collegio degli Scolopi a
Carcare, in provincia di Savona, si sarebbe impadronito,
spacciandola per sua, della poesia “Il canto degli italiani”, poi
diventato l’inno nazionale.
Forse in un qualsiasi paese del mondo la notizia
avrebbe procurato scandalo, reazioni indignate, smentite. Invece, da
noi, niente, nessuna reazione. Silenzio. Eppure quell’articolo offende
gravemente la memoria di Mameli, da sempre e da tutti ritenuto autore
dell’inno. Da padre della patria, nonostante la sua morte in giovane
età, a plagiario, a ladro. A leggere la notizia sembra che la “scoperta”
sia dello stesso estensore dell’articolo. Invece, non è così. La tesi
è dello storico di fede monarchica Aldo A. Mola, esposta
nell’introvabile volume “Storia della monarchia in Italia”,
Bompiani. Lo storico non esibisce a sostegno della sua tesi , come
avrebbe dovuto, alcuna documentazione. Non contrappone, infatti, il
manoscritto del frate scolopio a quello di pugno del Mameli, che, con
correzioni e postille, è conservato nei musei del Risorgimento di Genova
e Torino. La presunta prova del plagio sarebbe, invece, riposta
nei seguenti versi del frate: “A destar quell’alme imbelli/ meditò
robusto un canto; / ma venali menestrelli/ si rapian dell’arte un
vanto/sulla sorte dei fratelli/ non profuse allor che pianto/ e
aspettando nel suo core/ si rinchiuse il pio cantore”.
Come si vede, si tratta di versi ermetici,
addirittura cifrati, e peraltro senza destinatario. Una “prova” del
tutto ridicola. Da uno storico ci si aspetterebbe molto di più. E, poi,
perché il frate vittima di plagio non denunciò la cosa?
Secondo il Mola non lo fece per non offuscare la memoria dell’eroe.
Ma quale memoria? Per tutto il 1848 Mameli era vivo e il suo inno
veniva cantato dall’esercito piemontese durante la I guerra di
Indipendenza e dal popolo sulle barricate delle Cinque giornate di
Milano.
E visse ancora, il Mameli, per la metà del 1849 ed
ebbe tempo per scrivere un secondo inno (anche questo copiato?) ,
intitolato “Inno militare”. Un inno che riecheggia, per stile,
immagini, retorica, i Fratelli d’Italia. Basta l’incipit a confermarlo:
“Suona la tromba , ondeggiano / le insegne gialle e nere. / Fuoco per
Dio sui barbari,/ sulle vendute schiere”.
Che Mameli fosse tutt’altro che uno sconosciuto
poetastro è nientemeno Giuseppe Verdi a testimoniarlo, egli, infatti,
apprezzò il testo tanto da musicarlo. D’altra parte, Mameli è stato
oggetto negli anni di numerose biografie. Fra le prime quella di Arturo Codignola, che, per il Comitato Nazionale per le onoranze nel centenario
della nascita, ha esplorato con passione e meticolosità certosina gli
archivi genovesi, liguri e italiani, pubblicando nel 1927 l’ opera ”G.
Mameli. La vita e gli scritti”. Recentemente ha visto la luce “Goffredo
Mameli, Una vita per L’Italia” di Massimo Scioscioli, per l’Istituto per
la storia del Movimento repubblicano. Molte sono, inoltre, le edizioni
delle poesie di Mameli. La prima è del 1850, a Genova, con introduzione
di Giuseppe Mazzini. E nessuno, tanto meno l’Istituto Mazziniano Bianca
Montale, ha avuto da avanzare il minimo dubbio sull’autenticità
dell’opera poetica del Mameli e sulla genesi dell’inno. Peraltro, non è
nemmeno accertato che Mameli sia mai stato al collegio degli Scolopi,
manca, infatti, ogni documentazione in proposito, mentre è certo che ci
fosse il fratello.